Data: 30/12/2020 - Anno: 26 - Numero: 2 - Pagina: 14 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
SUI RIMEDI CONTRO I DISTURBI OCULARI NEL MONDO ANTICO GRECO-LATINO |
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AUTORE: Lorenzo Viscido (Altri articoli dell'autore)
Il tema che mi accingo a trattare non è nuovo. Ho tuttavia cercato, quanto più mi è stato possibile nei limiti dello spazio concessomi, di approfondirne dettagliatamente alcuni aspetti. Da Eliano, scrittore vissuto tra il II e il III secolo d. C., si apprende che, accecata e rinchiusa in un vaso di argilla insieme ad un anello nel quale era stata incastonata una gemma fossile, ossia la gagate, al nono giorno una lucertola recuperò la vista (De nat. an. 5, 47). Le parole di Eliano trovano riscontro in pietre preziose aventi incisa l’immagine della lucertola ed usate per la guarigione delle oftalmie (cfr. A. Mastrocinque, Sylloge gemmarum gnosticarum. Parte I, Roma 2003, pp. 58-63; Id., Le gemme votive, in Jean-Pierre Brun [ed.], Artisanats antiques d’Italie et de Gaule, Napoli 2009, p. 62). Aggiungo che il rapporto tra gli occhi e le gemme non è passato inosservato nella farmacopea di epoca imperiale (cfr. S. Macrì, Pietre viventi, Torino 2009, pp. 92-93). Cornelio Celso, un erudito del I secolo d. C., discute del collyrium [...] quod rhinion vocatur, buono soprattutto per la xeroftalmia e fatto, oltre che con murra, papaveris lacrima, acaciae sucus, piper, cummis, lapis Phrygius, lycium, lapis scissilis, aes combustum, anche con haematites (De med. 6, 6, 30), pietra non poche volte nominata, ad es., da Galeno (De comp. med. sec. loc. 4, 8) circa la produzione di kollýria e documentata dai lapidari quale antidoto all’indebolimento della vista (cfr. Orph., Lith. 665 ss.; Lith. ker. 22; Damigeron - Evax 9). E a proposito di lapidari, da questi risulta che efficaci per far risplendere gli occhi si consideravano le ofiti (cfr. Orph., Lith. 465), per far cessare le lacrimazioni gli zaffiri (cfr. Damigeron - Evax 14, 6) e che – non volendo dilungarmi – per togliere dalla cornea una macchia ombrosa chiamata, fra l’altro, nephélion e rendere penetrante lo sguardo si legava nella parte anteriore del capo la ieracite (cfr. Lith. gr.: Socr.et Dion. 48, 3). Come ho messo sopra in evidenza, contro i disturbi oculari venivano pure utilizzati “colliri”. Si trattava, in verità, di impiastri e ce n’erano tanti. Ad uno di essi ho già rivolto attenzione. Ora intendo soffermarmi sullo skylákion, che, stando a Galeno (De comp. med. sec. loc. 4, 8), era composto da antimonio, acacia, calcite, rame, cadmia, biacca, mirra, nardo d’India, licio d’India, zafferano, oppio, castoreo e aloe (in Aet. Amid., Libri med. 7, 112, sono eliminati nardo d’India, licio d’India, zafferano, acacia, biacca e castoreo, sostituiti da semi di giusquiamo, ematite, solfato di ferro, gomma e vino aspro). È chiaro che, pur avendo solitamente il valore semantico di “cagnolino”, nei passi appena segnalati la parola skylákion (cfr. H.G. Liddell - R. Scott, Greek - English Lexicon. With a revised supplement, Oxford 1996, s.h.v.) indica senza dubbio un kollýrion che, in base al giudizio di Emilie Savage - Smith (Hellenistic and Byzantine Ophthalmology:Thachoma and Sequelae, in Dumbarton Oaks Papers 38, 1984, p. 176), “possibly” era stato creato a “Scylacium” (= Squillace) “in southern Italy”. Desiderando sostenere l’opinione della studiosa appena menzionata, rilevo che, preceduto in Ezio di Amida dall’articolo (Libri med. 7, 112: kollýrion, tò skylákion epigraphómenon), il nostro termine potrebbe essere un aggettivo sostantivato neutro, uso non estraneo alla lingua greca (cfr. A.N. Jannaris, An Historical Greek Grammar, Hildesheim - Zürich - New York 19872, p. 325, par. 1241 a). Poiché da skýlax, infatti, che in italiano significa “cane” o “cagnolino”, derivano gli aggettivi skylákeios e skylákios (cfr. Thes. G. L., VII, col. 455 D), non escluderei un loro nesso con la città di Squillace, detta Skyllétion e Skylákion da Strabone (Geogr. 6, 1, 10; 11). Mi spiego meglio. Se per il secondo di questi due toponimi è supponibile “un rimodellamento paretimologico di Skyllétion” sulla voce skýlax con “l’aggiunta del suffisso ipocoristico –ákion” (P. Poccetti, Note sulla stratigrafia della toponomastica della Calabria antica, in J.B. Trumper, A. Mendicino, M. Maddalon [a cura di], Toponomastica calabrese, Roma 2000, pp. 108-109), potrei credere che l’aggettivo skylákios venisse anche impiegato, ma in forma di sostantivo, per ciò che attiene a quella città, precisamente ad un suo kollýrion denominato, qualora non dovessi sbagliarmi, “lo squillacese” (nel lessico di Ezio di Amida e Galeno non mancano simili operazioni linguistiche relative a farmaci: tὸ aromatikόn, tὸ trachomatikόn, tὸ nektárion, tὸ acháriston ecc.). Puὸ darsi, quindi, che entrambi quei medici facessero derivare skylákios direttamente dal toponimo Skylákion, la qual cosa non desta meraviglia se si pensa che dal virgiliano Scylaceum (Aen. 3, 553) aveva avuto origine la forma aggettivale scylaceus (cfr. Ov., Met. 15, 702: [...] scylaceaque litora [...]). Nel commentare l’opera galenica riguardante la compositio medicamentorum secundum locos (Basileae 1537) un umanista sassone, Janus Cornarius, scriveva che al farmaco skylákion (“Scylacium” nella sua traduzione latina) era stato dato questo appellativo, tenuto conto dell’ “eius experimentum in catulo” (p. 398). Catulus, in realtà, era l’equivalente latino, oltre a catellus, del citato vocabolo greco indicante quel rimedio, vocabolo che di solito – ripeto – significava “cagnolino” e di cui esistevano i sinonimi kynárion e kynídion. Perché, allora, la scelta della parola skylákion da parte di Galeno ed Ezio di Amida? Il motivo consisteva, a mio avviso, nel fatto che essi volevano con esattezza riferirsi ad un kollýrion avente questo nome non perché sperimentato su un catulus, ma in quanto squillacese. Raccomandato per la chemosi, lo stafiloma ed ulteriori patologie (cfr. Gal., De comp. med. sec. loc. 4, 8; Aet. Amid., Libri med. 7, 112), lo skylákion non andava confuso con l’omonimo impiastro di un medico: Apollonio (cfr. Gal., De comp. med. sec. loc. 4, 8). Rispetto al primo, l’altro si preparava in modo diverso ed era utilizzato con lo scopo sia di curare il tracoma, sia di non far cadere i peli delle sopracciglia. La distinzione fra questi due medicamenti è sfuggita alla Savage - Smith nel suo studio in precedenza ricordato (p. 176). Galeno (ibid.) puntualizza che l’Apolloníou skylákion ed un kollýrion dal nome hierákion o Phoînix erano la stessa cosa. È improbabile, comunque, che egli pensasse al collyrium hieracium descritto da Plinio in Nat. hist. 34, 27: ambedue i prodotti differivano in relazione agli ingredienti. Per quel che concerne i rimedi ad altri problemi oftalmici, faccio notare che veniva usato il fiele della iena, tramite il quale, spalmato sulla fronte, si curavano la cisposità, gli offuscamenti, le cateratte, l’albugine e via dicendo (cfr. Plin., Nat. hist. 28, 27). Mediante il liquido che colava dal fegato fresco della iena arrostito con miele schiumato si provvedeva alla cura del glaucoma (ibid.). Per far guarire da disturbi agli occhi, poi, non era tralasciato l’uso di alcune piante. Che dire, infatti, del cremnos agrios (proprio così)? Secondo Plinio (ibid. 25, 96) toglieva i difetti della vista (gremiae: cfr. Oxford Latin Dictionary edited by P.G.W. Glare, Oxford 19832, s.h.v.)? Che dire, inoltre, della capnos trunca, meglio nota come pedes gallinacii? Verde - asserisce lo scrittore comasco (Nat. hist. 25, 98) -, eliminava col proprio sucus l’annebbiamento. Che dire, infine, della stoebe, da certuni chiamata pheos (ibid. 22, 13)? Decocta in vino, si riteneva specifica non solo per le orecchie purulente, l’emorragia e la dissenteria, ma anche per gli occhi macchiati di sangue a seguito di un ictus. Riguardo a presenze ematiche in questi ultimi, si credeva pure che esse scomparissero grazie alla saliva della donna a digiuno, con cui andavano frequentemente bagnati gli anguli oculorum (ibid. 28, 22). Mi fermo qui ponendo un quesito: sortivano davvero efficacia i rimedi dei quali ho finora discusso? |