Data: 31/12/2021 - Anno: 27 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Non era ancora miseria, ma quasi, quella nella quale vivevano Cosimo e Venanzio, due giovanissimi contadini del piccolo medievale paese in collina. Il padre aveva arrossato con il suo sangue il fiume sacro d’Italia, il Piave. La madre era stata falciata non molto tempo dopo dalla spagnola, la peste che ha mietuto milioni di persone nel mondo. Nel piccolo paese, in particolare, c’erano giorni in cui se ne andavano al Creatore sino a sei o sette persone, ed era un lugubre spettacolo la processione di bare che venivano portate al cimitero sulle spalle di amici e parenti grondanti sudore lungo la ripida petta1 degli Angeli. L’economia, quasi esclusivamente agricola, languiva come non mai, perché alle braccia venute meno a causa della guerra si aggiungevano quelle più numerose ingoiate dalla nefasta pandemia. Cosimo e Venanzio si trovarono quindi a vivere con i nonni paterni, non più giovani, non in piena salute, non provvisti a sufficienza del necessario per consentire a quattro persone di vivere dignitosamente. Si videro pertanto costretti a rimboccarsi le maniche; ma, senza campi per lavorare e produrre, senza lavoro per terzi, senza guida e riferimenti, si ritrovarono sbandati, e per sopravvivere, loro e gli anziani nonni, cominciarono a far ricorso ad espedienti di vario genere, non sempre alla luce del sole, non sempre leciti. Le rare giornate di lavoro con la pesante zappa, nei campi altrui, procurava loro, se non moneta, che non era proprio di moda in quei tempi e in quel contesto, almeno dei fagioli, dei ceci, e del grano con cui la malferma nonna panificava di tanto in tanto. Anche la carne si procuravano saltuariamente i due attivi giovani: con pesanti trappole di pietra, che collocavano con maestria in angoli di campi che avevano imparato a conoscere, catturavano grossi topi che costituivano il prelibato cibo soprattutto per Natale, per Pasqua e in occasione di altre feste comandate. Di tanto in tanto, poi, portavano a casa una gallina prelevata in qualche pollaio non ben custodito. Con la furtiva caccia portavano ai nonni qualche beccaccia migrante, dei tordi, delle tortore e persino qualche lepre. Quando ne avvertivano il bisogno si portavano nelle colline del Preappennino per catturare, con ferree trappole, qualche incauta volpe. Autodidatti nello strimpellare la chitarra battente, di notte giravano per le vie del paese per portare le serenate ad amici del loro stampo o canzoni strambottariche2 sotto i balconi di famiglie non degne del loro rispetto. Conducendo un tale stile di vita nel giro di un paio di anni erano diventati assidui frequentatori della camera di sicurezza dei Reali Carabinieri, uscendone però, a fronte alta, perché c’era sempre l’amico che, per amor di colleganza, o per paura di ritorsione, forniva l’alibi, ovviamente falso, che li metteva in libertà. La gente del luogo, la maggioranza del paese, cominciava ormai a non più sopportare le angherie dei due giovanotti, e li appartava, e li trattava tutt’altro che con la benevolenza e il rispetto che loro pretendevano. Ormai manifestamente invisi alla popolazione, senza genitori e con il solo rapporto parentale dei vecchi nonni vicini alla fine, convinti di finire quanto prima in galera, decisero un bel giorno di cambiare paese e di andare a vivere dove nessuno li conosceva, e, a saperci fare, era possibile e persino facile diventare danarosi e uomini di mondo. Pensarono all’Argentina, contattando qualcuno dei tanti paesani emigrati che li ricevesse all’arrivo e li aiutasse nella ricerca di un qualsiasi lavoro, per cominciare una vita diversa da quella ristretta del loro paesello. La debole riluttanza del minore dei due che soffriva all’idea di doversi allontanare dalla bella Chicchina alla quale voleva un grande bene, purtroppo aspramente contrastato dai suoi genitori perché il giovine era senza arta né parta3 e anche un poco di buono, venne facilmente superata dal fratello maggiore con la promessa che sarebbero tornati in paese dopo pochi anni, ricchi e rispettabili da chiunque. Si recarono da mastr’Andrea, sarto-barbiere, ma anche Agente di una Compagnia di navigazione, per avviare la pratica di emigrazione. Quando questi parlò di un certificato detto dei “carichi pendenti”, decisero di architettare un tranello per fare fuori il mafioso, prima che lui avesse la possibilità di fare fuori loro. Al secondo invito, pertanto, dissero “sì”, e fissarono gi estremi dell’operazione. Stabilendo l’appuntamento ad un’ora notturna di un certo giorno in un luogo appartato e normalmente poco frequentato perché ritenuto socialmente degradato. All’appuntamento si presentò il piccolo dei due, mentre il maggiore s’era acquattato in un angolo buio, non visto, a poca distanza dal luogo fissato. Quando nell’oscurità apparve la sagoma della persona attesa e il minatore allungò il braccio per porgere il convenuto pacchetto che era pieno di… carta di giornale, uno sparo, uno solo, e il mafioso cadde pesantemente per terra, per non rialzarsi mai più. Seguirono ore di trepidazione e di paura, ma per poco tempo. Trascorso qualche giorno dall’accaduto, si presentò dai due un tale che, in un linguaggio tra l’americano e il siciliano, chiese loro di cosa avrebbero avuto bisogno, perché c’era chi intendeva ringraziarli per il coraggioso gesto di cui erano stati capaci. Si resero immediatamente conto che quel tale non era un poliziotto, ma un emissario della “Famiglia” avversaria a quella dell’ucciso. Senza indugio, dopo breve consulto tra loro, chiesero al misterioso visitatore la documentazione necessaria per poter tornare in Italia senza rischio alcuno. Dopo qualche giorno i due fratelli erano su un cargo che faceva rotta per l’Italia: a bordo due soli passeggeri forniti della documentazione necessaria rilasciata dalle competenti Autorità statunitensi. Arrivati al paese d’origine, furono accolti dai loro paesani con non tanto celata diffidenza, di cui loro, però, si curarono poco. Era prossimo il Carnevale, e i due fratelli si prepararono, come la maggior parte delle persone, al divertimento in maschera con le solite visite a casa di parenti ed amici. Domenica pomeriggio, vestite da donne e con le maschere ben fissate sulla faccia da sembrare incollate, e con una chitarra battente a tracolla, fecero un lungo giro per le vie del paese, con brevi soste per la strimpellata nei luoghi di maggiore frequenza. A un certo punto, i due s’incamminarono verso la casa di Chicchina, con il preciso intento di recare offesa all’uomo che alcuni anni prima aveva superbamente negato la mano della figlia al giovine che era senza arta né parta, ma che ora tornava dall’America benestante e coraggioso, stimato e da rispettare. Bussarono alla porta, che fu subito aperta, ed entrarono suonando e canticchiando con voce camuffata da far sembrare femminile. In casa le tre donne, mamma Filomena, Chicchina e la sorella Concetta, c’era pure il capo famiglia, massàru Peppi, che con noncurante disinvoltura si portò subito nell’altra stanza. Le due maschere femminili afferrarono al volo Concetta e Chicchina e le spinsero al centro della stanza per ballare. Ultimato il brevissimo ballo, le due maschere s’avviarono alla porta per guadagnare la strada, ma il padrone di casa, che nel frattempo era tornato nella stanza d’ingresso, intimò ai due mascherati di togliersi la maschera per farsi conoscere, come nel paese era usanza da sempre. Non piacque l’idea ai due, che tentarono di scappare, ma l’uomo di casa strappò fulmineamente con la sinistra le loro maschere, e con la destra estrasse di tasca la pistola: con due soli colpi stese sul pavimento i due fratelli Americani. Il processo per duplice omicidio volontario, fu quasi immediato e piuttosto veloce, senza intoppi di sorte. Altrettanto immediata e chiara fu la sentenza nei confronti di massàru Peppi: Assoluzione perché delitto d’onore.
NOTE 1 - Strada in salita piuttosto ripida 2 - Con strambotti maldicenti e offensivi 3 - Senza alcun mestiere né alcun bene |