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Autore:Vincenzo Squillacioti     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2014 - Anno: 20 - Numero: 1 - Pagina: 29 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

CU' E' DESTINATU U MORA AHRU SCURU A' VOGGHJA U SI FA' MASTRU CANDILARU

Letture: 1185               AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)        

Nella cultura popare calabrese sono sempre esistiti elementi di condizionamento come la
sorte, il destino, la fortuna che vanno al di là della comprensione umana e che fanno pervenire
a successi ma più spesso ad insuccessi non voluti e non prevedibili dall’uomo. Purtroppo
la gente del Sud, duramente provata da calamità naturali e da pesanti ristrettezze economiche,
presa da un senso di impotenza e di sfiducia in sé e negli altri, ha rinunciato spesso alla speranza,
alla perseveranza, all’intraprendenza e si è abbandonata al fatalismo. Tutto è quindi stabilito
dalla forza cieca del destino che traccia il percorso di ciascun uomo, al di là del quale
non si può andare! Il profondo sconforto e la conseguente rassegnazione che ha caratterizzato
per secoli la vita dei nostri avi hanno causato un grosso freno nello sviluppo, nella crescita
sociale e nell’evoluzione della Calabria ed in generale del Sud.
Si diceva un tempo: “Cu’ è destinàtu u mora ahr1u scuru a’ vogghja u si fa’ mastru candilàru”
(Chi è destinato a morire al buio è inutile che si faccia fabbricante di candele); ed anche:
“Cu’ sbenturàtu nescia, peju mora” (Chi nasce sventurato morirà ancor peggio). Questi proverbi
esprimono in pieno il senso del concetto precedentemente esposto: non si può cambiare
il corso del destino; siamo destinati a soccombere!
Si tratta comunque di un periodo storico da noi molto lontano quando i nostri antenati
vivevano in un mondo chiuso, dove il prodotto del lavoro, rapportato alle energie profuse
era piuttosto scarso e il denaro circolava a fatica. In un clima siffatto non era certo facile
pensare ad un miglioramento socio-culturale ed economico della popolazione dei paesi
simili al nostro; anzi era già un miracolo poter assicurare a sé ed ai propri familiari il
necessario per la sopravvivenza.
Anche la mentalità ristretta di quel tempo ha giocato un ruolo decisivo nel modo di pensare
e di agire del popolo calabrese e nella conseguente possibilità di sviluppo della nostra
terra. Difatti fino ad alcuni decenni fa i figli seguivano automaticamente le orme paterne e
spesso, sin dall’adolescenza, erano costretti a dedicarsi allo stesso lavoro dei propri genitori.
Non a caso si diceva: “L’arta do tata è menza mparàta” (Il mestiere del papà è già per
metà appreso); del resto il padre-padrone di un tempo che dominava l’intera famiglia non
avrebbe mai consentito alla propria prole di nutrire aspirazioni che non fossero adeguate al
tenore di vita della famiglia d’origine, e quindi alle sue possibilità economiche ed al suo
ceto sociale. Perciò quasi tutti i giovani di un tempo, remissivi e condiscendenti per forza
di cose, venivano avviati al lavoro dei campi, malgrado le aspettative fossero sempre condizionate
dai fenomeni meteorologici che decidevano del raccolto annuale e quindi della
possibilità di sostentamento dell’intera famiglia. Neanche l’artigianato locale, legato
com’era alle potenzialità della vita contadina, offriva garanzie di guadagni adeguati alle
normali esigenze delle famiglie.
Di fronte ad eventi che vanificavano il lavoro di un anno, facendo precipitare nella miseria
un’intera famiglia, certo si reagiva con tristezza e rabbia, ma anche con rassegnazione e
con espressioni del tipo: “U destìnu meu vozza accussì” (Così ha voluto il mio destino), ed
anche “Comu vola Ddìu” (Come vuole Dio). Era questo il modo di affidarsi alla volontà divina
ma anche di arrendersi accettando passivamente sconfitte e problemi esistenziali di varia
entità in nome di un destino potente ed immutabile.


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