Badolato come tanti altri paesi collinari Siamo pieni di contraddizioni. L’uomo del passato aveva cer­tezze fondate su pregiudizi (po­chi grandi riuscivano a liberarsene), ma l’uomo mo­derno, se va al passo coi tempi, non può non co­varsi dentro contrad­dizioni. Lo vedo in me stesso: mi attrae questo, ma anche il con­trario di que­sto. A me non ba­stano le notizie sempre ripeti­tive che i media ci danno, di solito li­mitate all’orti­cello di casa nostra con qualche accenno all’orto più grande della cosidetta “co­munità” (?) europea e ai punti nodali dell’Oriente (dal vicino all’estremo), dell’America e tal­volta dell’Africa, dove si colti­vano i grandi contrasti poli­tici o bellici, avvele­nati da logiche di sfrut­ta­mento e di pre­po­tenza che spingono l’uomo contro l’uomo con pretesti simili a quello della fa­vola del lupo e dell’agnello pro­pagandati sì che molti pur­troppo fi­niscono per cre­derci e par­teggiare. Vorrei sapere qual­cosa (o di più) di altri paesi dove vivono altri uo­mini di cui non si parla perché non rien­trano tra gli assediati dalle mire ra­paci del consumi­smo o della con­qui­sta. E ugualmente mi at­tirano i problemi, la micro­storia, la vita dei piccoli paesi, delle minu­scole comu­nità spesso abbar­bi­cate alle loro abitazioni de­gradate, al vivere gramo, ai rapporti ri­stretti di per­sone prive di slanci e di spe­ranze che non siano quelle cercate dai giovani (d’età ma soprattutto di spirito) nell’emigra­zione. Quando mi riesce di tornare per una vacanza al mio pa­ese dove ho an­cora amici e la casa con l’orto (un ritorno più volte progettato o sognato du­rante l’anno), ecco che poi dopo qualche giorno o setti­mana mi ri­prende la voglia della mia casa romana, dei li­bri che ho a Roma, della mia consueta attività. Ho sempre avuto viva curiosità d’informarmi su tutta la vita del pianeta, che dico? anche sulla parte piccola ma sempre meglio nota del sistema solare, delle conoscenze che gli studiosi raccol­gono esplorando la plaga dell’universo nella quale siamo sperduti e insieme coinvolti in pre­cise leggi ma­tematiche di gravitazione che è la nostra galassia, e anche oltre, come le zone remote in cui di re­cente è stata individuata materia oscura, refrattaria alla luce. Ma insieme ho de­di­cato più di venti anni e vario tempo che è venuto poi, a indagare su aspetti inesplorati o poco esplorati della micro­storia del mio paese, dei luoghi vicini e di tanti altri della Calabria, pas­sando il mio tempo libero in archivi e biblioteche, specialmente vaticani e romani, ma anche di altre città del centro-nord. Ho avuto la pazienza di raccogliere tutti i dati contenuti nei protocolli del più an­tico dei notai vibonesi, databili ad anni tra i 1559 e il 1565, ne ho scritto un regesto accu­rato e pi­gnolo, sforzando la vista su grossi tomi manoscritti in la­tino a lungo tenuti tra la polvere e l’umidità di scantinati e l’assalto di lepismi e altri parassiti della carta. Dive­nuto esperto di abbre­via­ture, aprivo pagine che a causa della forte acidità degli inchiostri di quel se­colo, una volta che ne avevo raccolto i dati e passavo sia pur con estrema cautela alle pa­gine se­guenti, si sbriciola­vano in più punti, si che oggi, sebbene quelle pre­ziose testimonianze siano meglio conservate, sono illeggi­bili in più luoghi. Per questo io sono tra quelli che hanno letto da cima a fondo i tre numeri de “La Radice” che l’ amico (mi permetterà di chiamarlo così?) Squillacioti mi ha inviato (a cominciare dal n. 1 del marzo 2006) a seguito della mia telefonata del 22 maggio di cui ho detto nel mio “Ricordo di Vito Maida” che egli m’invitò a scri­vere per il n. 2 de “La Radice”. E così son quasi diventato un badolatese, anche se non ho mai visto Badolato, né il borgo che si vorrebbe ri­popo­lare né la marina che va crescendo da sola. Diversi anni fa feci una fugace visita a Soverato, a Torre Ruggero, a Chia­ra­valle, a Stilo e poi alle varie località attraversate dalla statale 106, da Gioiosa a Locri, dove mi soffermai a ren­dermi conto delle rovine. In seguito visitai più accurata­mente Gerace superiore. Il prof. Squillacioti tempo fa mi ha telefonato per domandarmi se avevo letto il n. 3 de “La Ra­dice”. La mia risposta? “Dalla prima all’ultima riga”. E alla domanda: “E cosa ne pensa?”, pronta la replica: “Son diventato badolatese anch’io, ma l’abbandono del borgo è un feno­meno che non riguarda solo Badolato”. E ora as­secondo la sua richiesta di dirne le ragioni. L’articolo che condi­vido per intero, parola per parola, è quello di France­sca Vi­scone, La monumentalizzazione dell’ inesistente. A mio giudizio i calabresi (tutti, dai culturalmente più deboli ai più colti) dovreb­bero leggerlo spesso, per libe­rarsi da certa mentalità di cui non si accorgono, abbarbicati come sono al piccolo ombelico del mondo del loro paese dal quale non sono usciti vivendo con continuità in un am­biente diverso e più grande, che in loro abbia sollecitato e maturato confronti. La Viscone, per quanto ne so, ha vissuto in Germania, e questo spiega come, tornata nella natia Filadelfia, abbia una capa­cità di osser­va­zione e di critica mai disancorata dalla ragione. E tuttavia immagino che i “ben­pensanti” e gli “uomini di cultura” di Fila­delfia non abbiano letto quell’articolo o, se l’hanno letto, non lo condividano. E fuori di Filadelfia quanti l’hanno letto? E i Badolatesi nostalgici? Giurerei: avran pensato che non riguardi loro. Siamo alle solite. Leonardo Sinisgalli, il poeta lucano che era matematico e ingegnere, dopo l’ esperienza ermetica a cui l’aveva incoraggiato Ungaretti, nel 1962 pubblicò un libro da non di­menticare, L’età della luna, in cui raccolse versi e prose in parte pubblicati qualche anno prima. In esso parla con molta verità, con l’occhio e il cuore rivolti spesso alla sua terra. In uno dei brevi scritti in prosa (riflessioni e con­fessioni che hanno la densità della poesia) scriveva: L’uomo del Sud non matura. Stenta a uscire dall’infanzia. Quando non è più bambino è già vec­chio. Ecco uno dei mali del Sud, dove qualcosa impedisce di guardare con coraggio alla realtà, forse perché così amara induce al sogno come a una specie di evasione. Invece il calabrese che emigra impara ad af­frontare il reale e non sogna fughe da esso. Ma poi, se torna nella sua terra, spesso ri­cade nel vizio di sempre. Qualcosa dovrebbe insegnarci la pagina Una rondine di V. Squilla­cioti, purché non per­diamo di vista la crisi economica in cui vive oggi (e ormai da tempo) l’Argentina. Si capirà così perchè Teresa Mariela Nisticò, figlia di due badola­tesi emigrati in quella terra da bam­bini, ve­nuta nel 2001 (a 24 anni) a Ba­dolato insieme ai ge­nitori, abbia deciso di re­starci da sola allor­ché i suoi se ne tornarono in quel grande paese sudamericano. Aveva il coraggio dei giovani e come tanti gio­vani argentini aveva capito che in quella terra lon­tana per lei non c’era un avvenire, anzi era quanto mai opportuno fare al contrario il viaggio emi­gratorio dei suoi ge­nitori. Non l’amore per Ba­dolato, ma la possi­bilità di stare dove i suoi avevano conservato la vecchia casa, la spin­geva a quella deci­sione. E quando nel 2006 ha trovato l’amore per un giovane della pro­vincia di Peru­gia, non ha esitato a sposarlo e ad andare a vivere con lui in terra umbra. Ha vinto così la sua scommessa che le promette una vita economi­camente migliore di quella che l’Argentina avrebbe potuto of­frirle. Sono le condizioni economiche a determinare il progresso o la decadenza dei paesi. Da tanto l’ho capito anch’io, che pure vivo di cultura classica, cioè leggendo e rileggendo i classici e non pochi dei moderni e contemporanei, con attenzione a scrittori di opere che alcuni dicono più scientifiche, come Machiavelli, Guicciardini, Galilei, Redi, trattati di anatomia e medicina del ‘500-600, scritti di Gio­vanni Vailati o di Wittgestein, e nutrendomi di musica, di “belle arti” e principal­mente di poesia. So­prattutto ho capito che l’uomo, almeno quando vuol ragionare di qual­cosa, non deve lasciarsi vincere dalla nostalgia, “la mala consigliera contro la quale son convinto, al­meno da quando ho scritto Il pas­sato (1970), che farei bene a star sempre in guardia”, come ho scritto nella premessa al mio li­bro Esperimenti di-versi (dovrei vergo­gnarmi di autocitarmi, ma lo faccio per dire che queste mie con­vinzioni non sono improvvisate oggi). Né si dimentichi che il termine nostalgia, introdotto nell’ita­liano soltanto dall’800, era soprat­tutto un termine medico che indicava uno stato patologico della psiche in chi, avendo dovuto abban­donare il suo luogo natio, soffriva il cambia­mento del clima e delle abitudini alimentari consueti con sintomi de­pressivi talvolta addi­rittura farneticanti. Proprio perché non ho mai visto uno di Badolato, spero di non offendere alcuno se azzardo una mia impressione: i nostalgici che cercano di convincere altri a ripopolarne il borgo, non vivono in esso, ma altrove, i più nella sua marina. Nicola Maddaloni, architetto, fa parlare anzi sognare il borgo, che osserva i tanti suoi “figli adot­tivi” a uno dei quali domanda perché ha osato spendere “in una zona si­mile” com­prandovi una casa. Si sente ri­spondere che già gli è crollato il tetto, ma è de­ciso a resi­stere. Verrà tempo (il borgo so­gna) che le colline s’infittiscano di vigne, olivi e frutteti, che “siano for­nite di laghetti collinari per la re­golazione delle piogge nelle stagioni aride”, che siano “ripopo­lati stalle e fienili”, “ria­perti catoj e ricostruiti mulini”. Lì per lì ho pen­sato: l’architetto scrive con ironia venata di amarezza, ma poi ho capito che insieme col borgo sogna pure lui un im­possibile ritorno a una vita che era quella del pas­sato, oggi im­proponi­bile non solo a Badolato. Perché il mondo agri­colo se­gue re­gole economiche che non sono più quelle di 30-40 anni fa. Sogna specie quando fa dire al borgo: “Non gra­direi che l’ adegua­mento della “106” si tra­sformasse in una ba­nale variante, ma­gari a monte dell’attuale trac­ciato ed in area quasi interna, con spreco di pre­zioso mio suolo, sfre­gio delle mie colline ed emargi­nazione dell’attuale struttura pro­duttiva di valle”. Invece, si sa, sono soprat­tutto le vie di comu­nicazione a determinare da sempre la fortuna delle città. I principali ag­glome­rati ur­bani del pas­sato sorsero nei luoghi più op­portuni delle rive dei fiumi, le prime vie di comunica­zione che fra l’altro con la fluita­zione con­sentivano i tra­sporti di le­gname e altro. Ho biso­gno di ri­cor­dare le ci­viltà svilup­patesi fra il Tigri e l’Eufrate, ri­pe­tere con Erodoto che “l’Egitto è un dono del Nilo”, dire che nel suo delta Alessandro Magno fondò Ales­sandria? Se Roma sorse sulle rive del Te­vere, le più attive città del nostro cen­tro-nord (e le grandi euro­pee) sono at­tra­versate da fiumi. I fiumi erano addirittura deifi­cati (a Roma il dio Ti­berino). Altri centri urbani si svilupparono quando Roma attuò la grandiosa co­struzione di strade, quelle che si chia­mano vie consolari. Sogna il sindaco di Cleto il quale, considerata l’inagibilità di tutti gl’immobili comu­nali, scrive sui giornali di­cen­dosi pronto a ricorrere alla sponsorizzazione privata, ad avere il munici­pio tar­gato Pirelli, l‘asilo del Mulino Bianco, l’ex mattatoio della Simmenthal. Ce lo rife­risce Vito Teti, il quale si compenetra commosso in problemi simili, che riguar­dano tanti paesi colli­nari dell’in­terno (Bado­lato, Nardodipace, Torre di Ruggiero), senza però avvertire che gli in­vo­cati sponsor non spendereb­bero un euro per opere da cui non trarreb­bero un conve­niente “ritorno d’imma­gine”, cioè una pubbli­cità redditizia, in un paesino come Cleto. Una cosa del genere fareb­bero volentieri se a proporla fosse il sindaco di Roma o di Milano, in un punto d’intenso traf­fico ben in vista o anche in un’autostrada prossima alla città, dove piazzare un vi­stoso car­tel­lone. A questo punto dovrò dire del mio paese. Colonia magnogreca (Hipponion) munita di un im­po­nente sistema di mura con torri, provvista di una propria monetazione; poi colonia romana che as­surse alla dignità di municipio (Vibo Valentia, anch’esso con la sua monetazione), compren­dente un terri­torio su per giù corrispondente all’attuale provincia di cui dal sec. XVI ad oggi son venute alla luce resti di ville, di terme con splendidi mosaici. Distrutta due volte dai Sara­ceni nell’ 850 e nel 983, a mu­nirla almeno di una torre fu forse Ruggero il Nor­manno, ma a in­grandirla costruendo un castello fu certo Fe­derico II di Svevia, che la riedificò col nome di Mon­teleone, e poi gli An­gioini e gli Ara­go­nesi. Dal sec. XV vi furono fondati non pochi conventi e fu sede del Teso­riere di tutta la Cala­bria Ultra (oggi diremmo della Tesoreria dello Stato) per cui vi si insediarono grandi banchieri e mercanti genovesi e fio­rentini. Infeudata a Ettore Pignatelli (che fu vicerè di Si­cilia), dopo il ter­re­moto del 1783 che le recò danni limitati perché costruita su una roccia, fu centro importante negli anni della Cassa Sacra e più ancora dopo l’ar­rivo dei Fran­cesi di Giuseppe Bonaparte, e poi sotto Murat. Allora fu uno dei sette capoluoghi di provincia (quello della Calabria Ultra) in cui fu suddi­viso tutto il Regno di Napoli (nella nostra re­gione l’altro, della Calabria Ci­tra, era Co­senza). Grazie al rinnovamento e alla le­gi­sla­zione che ra­pida­mente metteva fine all’an­cien ré­gime importando nel Regno il codice napoleo­nico, l’eversione della feudalità, un’atten­zione nuova all’istruzione pubblica, un’espe­rienza am­mini­strativa che era la più evoluta in Eu­ropa (la Repubblica Ligure ave­va un cata­sto che da noi an­cora oggi ce lo sognamo (pur non senza eccessi dovuti alle resi­stenze ap­poggiate o fomentate dagli Inglesi), la mia città si sviluppò nelle vie squa­drate in­torno agli assi tradi­zionali del cardo e del decu­mano, vide sor­gere un teatro non grande ma sul modello di quelli famosi d’Italia, la Gran Corte criminale, utilizzò al meglio i palazzi più im­por­tanti e i con­venti deserti di frati (lo stesso papa d’accordo col Borbone aveva acconsentito che si rendessero disponibili per af­fontare in qual­che modo i gravissimi danni del terremoto). Certo di ciò non erano contente le forze più retrive che badavano ai loro inte­ressi par­tico­lari e armavano briganti, che da noi non sono man­cati mai. E pu­troppo ancor oggi c’è chi rim­piange i Borboni, in questi tempi bui in cui da 20 anni si attua un “ri­flusso” ben soste­nuto e pro­pagandato dai media per precisi disegni po­litici. Monte­leone fu così pu­nita dai Bor­boni, che tra­sferi­rono il capoluogo a Ca­tan­zaro, la Gran Corte a Reggio. Tuttavia Vibo Valen­tia conti­nuò ad essere un centro importante e, spe­cialmente dopo l’Unità d’Italia, fino alla II Guerra Mon­diale fu un centro non direi di cultura, ma certo scolastico e militare di ri­lievo, quasi quanto le tre province calabresi di allora. Negli ex con­venti furono allogate istituzioni civili o militari: il car­cere in quello degli Agostiniani calceati; l’Ospedale in quello dei Carmelitani; la caserma “Gari­baldi” in quello dei Minori Osservanti; la Scuola Tecnica industriale in quello di S. Chiara; dapprima il Liceo “Filan­gieri”, poi il Convitto Nazionale e una scuola me­dia in quello dei PP. Riformati Fran­cescani; la Casa dei Corri­gendi, poi un Orfanotrofio, poi l’Istituto Tecnico Industriale in quello dei Domeni­cani; un’altra scuola me­dia nel Collegio dei Gesuiti; l’Amministra­zione delle Opere Pie e un asilo infantile nel Conservatorio dello Spirito Santo; i militari dell’Aviazione nel castello; l’Istituto Ma­gi­strale in uno dei due palazzi del mar­chese Ga­gliardi. Inoltre negli anni intorno al 1935, quando fu Mi­nistro dei La­vori pubblici il vibonese Luigi Razza, furono costruiti il Munici­pio, il grande edifi­cio della Scuola ele­mentare ma­schile “Don Bosco” (ospitò pure il Ginnasio-Liceo), l’altro della Scuola elementare femminile “E. De Amicis”, il Palazzo degli Uffici Fi­nanziari che ospitava anche il ne­onato Istituto Tecnico Com­merciale e per Geometri, il Palazzo del Tribunale con una sezione di Corte d’Assise, il pa­lazzo della G.I.L., un grande Mattatoio, il Campo di Aviazione, il palazzetto della Banca d’Ita­lia, il nuovo porto di Vibo Ma­rina. Allora Vibo Valentia era intensamente popolata sia nel borgo medioevale più eminente ad­dos­sato al Ca­stello (c’erano il Carcere e la Scuola Tecnica Industriale), sia nella parte medio-alta, at­tra­ver­sata dal corso Umberto I (il principale di Vibo) dove erano l’ex Collegio dei Ge­suiti, quello dei Mi­nori Os­servanti, l’Istituto Magistrale, il Tribunale (a due passi la scuola “De Amicis” e il Conservatorio), il Convitto Nazionale e l’Orfanotrofia, sia nella parte bassa, dov’era il resto. Le scuole vibonesi erano frequentate da molti giovani del cir­condario e anche di non pochi luoghi della provincia di Reg­gio e del ver­sante jo­nico della Re­gione. Essi a Vibo risie­devano per tutto il periodo dell’anno scola­stico a causa dei difficili colle­gamenti coi pa­esi anche non proprio lontani, perché il sistema stradale era assai carente. Ma a rendere viva quella cittadina fin quasi agli anni ’60 erano so­prattutto le con­di­zioni di numerosi paesi e pae­sini ai piedi di Vibo, alla distanza di due, tre, cinque o sei km., che an­cora erano privi di luce elet­trica, di strade di col­lega­mento accettabili e al­cuni anche di cimi­tero (il Regime aveva prefe­rito inve­stire tante risorse finanzia­rie in Libia e nelle altre colonie). Così i giovani di quei paesi, che la mattina giungevano a Vibo a piedi o con qualche altro mezzo per frequentare la scuola, vi torna­vano la sera per godere della luce elettrica e vedere le ragazze. Infine è da tener presente che la cittadina, che fin dal sec. XVI go­deva d’un pri­vilegio per cui te­neva un mercato domenicale, le dome­niche era più popolata che gli altri giorni, per­ché dal suo hinterland agricolo vi giungeva ogni ben di Dio su cestoni da basto portati da asini e muli (e molto aveva da lavorare il maniscalco da­vanti al quale si faceva la fila per farli ferrare) o su car­retti agri­coli. Intanto la Marina cresceva. Vi sorgevano alcuni stabilimenti industriali (tra cui il Nuovo Pignone e la Snam Progetti). E a Bivona fin dai tempi antichi era assai attiva e prospera la tonnara. I Vibonesi dovevano andare a Vibo Marina per pren­dere il treno per il Sud o per il Nord. E la città sulla collina co­min­ciava a decadere. A salvarla furono due importanti vie di comu­nicazione: l’autostrada Sa­lerno-Reggio Calabria, che sale sulla collina, portandole lo svincolo a 3-4 km. e la nuova linea fer­rovia­ria che con un nuovo ponte ardito scavalca l’Angitola e le avvicina la stazione ad altrettanti km., per proseguire all’interno fino a Rosarno, tagliando tutto il percorso co­stiero che da Vibo Ma­rina passa per Briatico, Parghelia, Tropea, Capo Vaticano, Nicotera. Da al­lora Vibo Valentia è ri­nata a nuova vita, ma intanto non pochi paesi vicini hanno avuto prima le scuole medie, poi istituti superiori, sì che la città non è più il centro di studi che era una volta. Nella parte più bassa di Vibo sono state co­struite nuove scuole, sottraendole a non pochi dei vecchi con­venti. Così il borgo più alto, dov’erano palazzi notevoli del ‘500 e del ‘600, fu pian piano ab­ban­donato per­ché la popo­lazione cominciò a preferire le case costruite in cemento armato, meglio divise in stanze separate da corridoi e più facilmente riordinabili. Il Corso Umberto I (in direzione Nord-Sud) non è più la via prin­cipale, e ad essere più movimentato è il Corso Vittorio Emanuele che parte da Est e scende a Ovest attraversado tutta la parte bassa. L’istituzione della nuova provincia ha fatto il resto, accrescendo però la confu­sione determinata dal non aver provveduto per tempo a un sistema di sviluppo stradale, con vie più larghe di quelle che la speculazione edilizia ha consentito dopo aver saziato la sua fame di suoli. Così nascono e muoiono, si sviluppano e decadono i centri urbani. Il problema non riguarda solo Badolato. In Calabria molti paesi importanti prima del terremoto del 1783 non ci sono più, e non po­chi sono stati trasferiti altrove. L’antica Castelmonardo è stata spostata per farne l’attuale Filadelfia; la vecchia Briatico, che sorgeva a mezza costa, ora sorge sul mare; Mileto, sede dell’Ab­bazia della SS. Trinità e d’un vescovato fra i più grandi d’Italia (ora ridimensio­nato), con strutture edili­zie d’im­pianto normanno, sorge in altro posto. Altri centri sono decaduti per cause diverse: Motta Filòcastro, un feudo dei Pignatelli d’una certa im­por­tanza (come tutte le motte sta in posizione elevata) è quasi deserta da quando più a valle cresce Lim­badi; Villa San Giovanni sorge sul mare dopo il declino di Motta Santo Ni­ceto. E Pentedattilo? Né solo in Calabria si assiste alla decadenza di centri collinari importanti nel pas­sato. In Molise, La­rino (la Frento da cui prendeva nome il terri­torio dei Frentani) conquistata dai Romana (Larinum) ebbe il suo an­fiteatro e le sue terme. Per la sua posizione a 341 sul mare, a dominio della valle del Bi­ferno, fu poi contea ambita da Longobardi, Bizantini, Franchi, Sa­raceni, finché nel sec. XI fu ­feudo dei conti di Loritello. Nel 1300 a distruggerla furono un terremoto e i Saraceni cacciati da Lucera. Ma ri­sorse come feudo degli Orsini, poi via via dei Pappacoda, dei Brancia, dei Carafa. Il suo pas­sato è testimoniato dal duomo romanico ogivale com­piuto nel 1319, con un bel campanile sormontato da una piramide ottagonale aggiunto nel 1451. Dopo il 1950, quando più volte la stampa premeva per la creazione di nuovi capoluoghi di pro­vincia, tra essi si pro­poneva quello di Larino-Termoli. Larino da sola non bastava, ché aveva il suo passato pre­sti­gioso, ma solo 7000 abitanti circa. Termoli invece, posta sul mare, con una parte an­tica su una pic­cola penisola (il duomo romanico-pugliese risale al sec. XII e ciò che resta del ca­stello a Federico II di Svevia) mentre la parte nuova sale un poco verso l’entroterra, di abitanti ne aveva circa 11000 e già si tra­sformava da centro peschereccio e bal­neare (dirimpetto ha le isole Tremiti) in centro eco­nomico di rilievo per l’insediamento di attività in­dustriali. Infatti in seguito vi sorse un importante e modernis­simo stabili­mento della FIAT, sicché oggi da sola su­pera i 30000 abitanti. In provincia di Viterbo a causa delle frane è stata abbandonata Civita Bagno­regio (nel 1221 vi nacque S. Bonaventura), costruita su una collina tufacea che frana. Acce­dervi oggi non si può se non percorrendo a piedi un’ardita passerella-ponte che dalla valle porta su i visitatori ad ammirare il suggestivo borgo medio­evale dove tanta bellezza è sepolta nel silenzio. An­che lì al­cuni ro­mani hanno comprato e restaurato delle case per trascorrervi solo qualche periodo dell’estate, quando la mancanza di piogge fa temere di meno il pericolo delle frane. Badolato non ha neppure la fortuna d’esser vicina a una grande città. Catan­zaro, a parte il fatto che non è una metropoli, se d’estate vuol prendere il fresco ha a due passi la Sila piccola, mentre se preferisce il mare ha la sua marina e accanto altre marine. Badolato avrebbe diversa for­tuna se fosse, per esempio, nei dintorni di Roma, dove ogni giorno tanta gente va magari a man­giare, e se decidi di farlo la domenica nel paese anche piccolo dove arrivi trovi decine di migliaia di per­sone che hanno avuto la tua stessa idea. Badolato purtroppo, lo dico con dispiacere, non ha un avve­nire. L’ospitalità offerta ai curdi a mio giudizio durerà solo per un primo periodo d’insediamento, ma quando essi si faranno un po’ di strada emigreranno altrove, forse alla marina o più probabil­mente nell’Italia del Nord o in Germa­nia. Il Medioevo è finito! In Francia è finito nel secolo dei Lumi e dell’Enciclopedia. In Cala­bria, dove l’influenza del Genovesi, del Filangieri e degli altri sensibili alle novità procla­mate dai philo­sophes svegliarono le coscienze di non pochi intellettuali che pote­vano permet­tersi il lusso di an­dare a stu­diare all’università di Napoli, contribuendo a creare il clima che portò alla glo­riosa ma ef­fimera Re­pubblica partenopea, le cose andarono come si sa. Così la grande opera di ammoder­na­mento della le­gislazione attuata nella nostra regione dalla conquista di Giuseppe Bona­parte (pur non senza qual­che durezza o incomprensione della nostra infelice re­altà) fu logorata dalla continua oppo­sizione della parte più retriva del clero e degli inglesi che sostenevano Ferdi­nando di Borbone fug­giasco in Sicilia incitando e armando bande di “sanfedi­sti” che trovarono nel cardinale Fabrizio Ruffo (con­traddittorio personaggio contra­rio a ogni forma di vio­lenza ma vo­glioso di protagonismo ) l’uomo pronto a capeg­giarle non impedendo loro una “riconqui­sta” fatta di stragi e di esecuzioni somma­rie. Era stato ap­passionato di studi di economia; si ispirava alle idee di Pietro Verri contrarie al lati­fondo e so­ste­ni­trici di iniziative im­prenditoriali che oggi diremmo liberali, e an­che a quelle del Ge­novesi e del Fi­lan­gieri. Affidato dallo zio cardi­nale alle cure del pro­prio segreta­rio don Giovanni Braschi che poi di­venne papa Pio VI, nel 1785, quand’era ancora chierico, fu fatto teso­riere generale della Camera Apostolica. Nel 1794, creato cardinale, passò alla corte di Napoli e, nominato In­ten­dente di Caserta, mediò tra il Vanvitelli e il Re per la costruzione della famosa reg­gia. Du­rante l’occupazione fran­cese del Re­gno, fu a Parigi dove mediò tra il Papa e Na­po­leone (il perso­naggio che più di tutti lo af­fasci­nava), contribuendo non poco alla firma del con­cordato di Fontai­nebleau. In Calabria un colpo importante al Medioevo è stato dato dopo la 2a guerra mondiale, quando folle di persone dotate di spirito d’iniziativa e di fiducia nella propria volontà di lavorare, con “la va­ligia di cartone” se ne andarono in Olanda, in Belgio, in Francia, in Germania, o nell’Italia set­ten­trionale con la speranza di tornare un giorno nei propri paesi per riparare la casa (se ne avevano una) o costruirsela coi risparmi frutto di una dura fatica, con la quale apprendevano nuovi sistemi di lavoro e nuove tecnologie. Altri invece fecero come di sé con amarezza disse Pa­scoli (che si sen­tiva non dico Romagnolo, ma di San Mauro di Romagna, anzi della propria casa): Io, la mia patria or è dove si vive. E ci sono rimasti per sempre. Gaetano Scalamandrè