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Autore:Anonimo     Data: 30/04/2019  
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 Elogio della letteratura di Francesca Viscone - Scrittrice (Relazione al Convegno “Incontro con la narrativa” del 22 maggio 2004)

INCONTRO CON LA NARRATIVA”

Badolato Marina, 22 maggio 2004 – ore 18,00

Auditorium Scuola Media

Elogio della letteratura

(Relazione al Convegno di Francesca Viscone - Scrittrice)

Se per narrativa intendiamo la letteratura in prosa, dovremmo distinguere tra racconto e romanzo, tra i vari tipi di racconti e di romanzi, tra le varie tecniche del raccontare e gli strumenti che ci servono invece per leggere e capire, per decodificare un testo. In realtà però quando si parla di narrativa in senso lato, si fa riferimento anche al cinema, ai fumetti. A tutto ciò che è in qualche modo narrazione, racconto, fiction.

In un incontro piccolo e intenso come quello di oggi non si può aspirare alla completezza, perciò ho deciso di affidarmi ad una specie di spirito – guida che spero mi aiuterà a trasmettervi una passione. Quella per la lettura, cioè per i viaggi attraverso mondi immaginati, non immaginari, fatti di parole libere, di emozioni e di pensieri non sempre comunicabili, non perché proibiti o trasgressivi, ma perché veloci, imprevisti, costruiti con un impasto di odori e colori che si trovano nelle pagine dei libri e che non sempre incontriamo nella realtà.

Contro i manuali

Le buone antologie di scuola superiore dicono tutto ciò che è utile e necessario sapere per avere una visione completa del “che cos’è la narrativa”. Racconto o romanzo. Fantastico o realistico. Sperimentale o tradizionale. Leggereste, per esempio, che occorre contestualizzare un’opera, conoscere lo sfondo storico in cui è stata scritta. Vero. Ma credete che sia stato il contesto, la storia del tempo, a rendere immortali Dante e Shakespeare? O non piuttosto la capacità di superare le miserie del loro tempo, della storia, del mondo in cui vivevano? Se fossero stati meno maghi e più “babbani”, se non avessero “visto” la realtà oltre il reale, credete che oggi saremmo ciò che siamo? E quale contesto storico ha reso immortale l’Odissea? Quello interno, la guerra di Troia, o quello esterno, dei periodi in cui è stata scritta?

I manuali approfondiscono lo studio utilissimo del contesto storico e parlano di rapporti extratestuali di un’opera, cioè dell’insieme delle relazioni con le idee, la mentalità, gli avvenimenti storici, la biografia degli autori. Il ragazzo che avrà imparato tutto ciò, non necessariamente leggerà l’opera, un giorno. Potrà raccontarvi dei rapporti intertestuali, cioè dell’intreccio di relazioni esistenti con altri testi dello stesso autore e con la tradizione letteraria in cui si colloca. Quanto tempo credete che basti, per dimenticare tutto questo? Quanto tempo ci vuole invece per dimenticare il sapore del veleno in bocca alla nostra eroina suicida? E quanto tempo ci vuole per dimenticare le avventure di Ulisse, i pensieri e le città degli uomini incontrati? La narrativa è lo specchio di un mondo trasfigurato, in cui è possibile nascondersi per proteggersi, per capire il mondo, cancellarlo, migliorarlo.

Conosciuto il contesto storico, occorre andare avanti, capire. La critica letteraria e la scuola, il vizio di studiare a memoria i manuali invece di leggere le opere, tutto ciò uccide la passione, impedisce l’abbandono, l’identificazione di cui ognuno di noi ha bisogno.

L’idea comune di letteratura e di narrativa è un impoverimento di tutto ciò che avviene nella mente di chi legge o di chi scrive. Diceva Elsa Morante: «Una delle possibili definizioni giuste di scrittore per me sarebbe addirittura la seguente: un uomo a cui sta a cuore tutto quanto accade, tranne la letteratura».

E dal canto suo così confermava Sepùlveda: «Per me uno scrittore è un uomo o una donna che è a suo agio dentro la vita, nelle cose più apparentemente insignificanti, e proprio per questo è scrittore». (In: Luis Sepùlveda, Raccontare, resistere. Conversazione con Bruno Arpaia, Guanda 2002, p. 11)

Tutta la letteratura è invenzione, soprattutto è una reinterpretazione della vita che non solo non la impoverisce, ma la arricchisce di contenuti e di significati. Quando lo scrittore prende spunto dalla realtà, la trasforma, la capovolge, le dà un senso nuovo, scopre verità nascoste. Il grande fascino della narrativa consiste proprio in questo passaggio da un mondo noto e prevedibile, come è quello reale, ad un mondo fantastico, quello del “possibile”, dell’immaginazione.

La validità di un racconto o di un romanzo non dipende dalla sua capacità di fotografare la realtà. Sono più importanti la carica emotiva che trasmette, la capacità di suscitare immagini, visioni, sogni, di trasportarci in un mondo diverso e lontano dalla vita quotidiana, di farci cambiare prospettiva e con ciò, regalarci sguardi nuovi su ciò che ci circonda. Si scrive e si legge per vivere vite diverse, per avere altre vite, altre identità, altre possibilità. Si legge per fuggire, per dimenticare, per conoscere ciò che non siamo mai stati e ciò che non saremo mai. Si sta fermi con il corpo, assenti e dimentichi del mondo circostante, per precipitarsi con la mente in universi invisibili, da cui si torna diversi. Come dopo un viaggio, non si è più gli stessi.

Si tratta di un bisogno vitale, per alcuni ossessivo, per altri un lusso che ci si concede nei ritagli di tempo, rubando minuti al dovere, al lavoro, alla famiglia. Ma chi di voi pensa che la sua vita sarebbe stata la stessa se non avesse incontrato quel tale Mattia Pascal (Pirandello), quel certo Werther (Goethe), quei Paolo e Francesca (Dante) o Didone, Joseph K. (Kafka), e quanti altri ancora... Sarebbe stata la stessa la vostra vita, se non aveste saputo che si possono raggiungere gli inferi, incontrare lì i genitori defunti oppure una donna amata, per poi ritornare nel mondo dei vivi ad affrontare la solita vita o la solita avventura? E che dire di quel naso di Gogol trovato in un panino al mattino a colazione? O del naso di Uno nessuno centomila? Vi siete guardati allo specchio chiedendovi se il vostro naso pende a destra o a sinistra, se siete ciò che credete di essere o non siete piuttosto ciò che pensano di voi? E nel dubbio che la vostra immagine non corrisponda alla realtà, vi siete interrogati sull’unità del vostro “Io”? La vostra vita sarebbe stata la stessa, senza Liolà (Pirandello, Liolà scopre la luna), o senza La carriola (Pirandello)? O fate parte anche voi dell’esercito di adulti che sogna, la sera, di chiudersi a chiave nel proprio ufficio, quando ormai non c’è più nessuno, e di mettersi a correre con la carriola intorno alla scrivania, ridiventando bambini e recuperando la dimensione del vivere per gioco, del gioco del vivere?

Leggere cambia la vita. Sarebbe stata la stessa, la mia vita, se non avessi incontrato uno strano romanzo, tra fiction e storia, Il tamburo di latta (Grass), dove un bambino a tre anni decide di non crescere più, di non diventare adulto tra gli adulti, e scopre che il suo giocattolo, un tamburo di latta appunto, è un’arma pericolosa e come tale la usa per difendersi. dandosi una sola possibilità di rimanere libero e di diventare uomo, una possibilità che era anche l’unica possibilità: non crescere e manifestare il proprio dissenso urlando e percuotendo il tamburo, mandando in frantumi i vetri dei palazzi, in una società nazistizzata, di cui non voleva far parte.

I compagni di viaggio che non mi hanno mai abbandonata, che non sono mai rimasti chiusi nei libri, ma sono entrati nel mio mondo, sono talmente tanti che ho dimenticato molti nomi. Ma tornano, come vecchi amici, quando meno te li aspetti, con un gesto, una parola, un rumore. Fanno parte di me. L’insieme dei mondi in cui ho vissuto è costruito su carta, parole su parole e, con l’andare avanti degli anni, loro mi sembrano veri e reali e la realtà sfuma, sfalsata, falsificata dalle bugie che costruiamo per non vacillare, dai rapporti umani degradati spesso a relazioni sociali, a giochi di ruolo inafferrabili e senza senso.

Usare la letteratura come evasione non è pericoloso, è necessario. È una forma di resistenza alla banalità. Se guardassimo il mondo e gli altri con gli occhi incantati di chi legge un romanzo e in ogni personaggio riconosce il valore dell’unicità, forse avremmo maggiore rispetto, comprensione, complicità gli uni verso gli altri. La lettura è sempre filtrata dall’umiltà dell’ascolto, dallo sforzo della comprensione: è una specie di esercizio mentale alla complessità del reale, la preparazione ad un modo diverso di interpretare il mondo e gli uomini. «Come sa ogni lettore, certi romanzi posono “segnare la nostra esistenza. Se ciò avviene è perché il carattere come se” del racconto permette di prendere in considerazione fino alle conseguenze più estreme pensieri e emozioni da cui le convinzioni della vita ordinaria di norma ci tengono lontani: ma ciò che viene così preso in considerazione può svelarsi tanto importante da imporre di riorientare e di rinegoziare le convenzioni». (A cura di P. Jedlowski, Libri e altri media. Rubbettino 2001, p. 24)

La narrazione è parte della vita quotidiana. La tecnica fa la differenza. Ogni giorno raccontiamo a qualcuno una parte di noi. Ma non tutti e non sempre sappiamo raccontare. I fatti in sé non significano niente o significano poco. Conta molto il modo di porgerli. È soprattutto la tecnica che fa la differenza tra il quotidiano atto del raccontare e la letteratura. Prenderò come primo esempio un romanzo che ha avuto un successo mondiale. Poco conta qui la discussione se si tratta di letteratura o di paraletteratura.

Harry Potter

Se la Rowling avesse iniziato i suoi romanzi scrivendo «Harry Potter era molto bravo con i giochi di prestigio e conosceva anche i trucchi più difficili dei maghi», non avrebbe venduto un libro. Ma sentite come inizia Harry Potter e il prigioniero di Azkaban:

«Harry Potter era un ragazzo insolito sotto molti punti di vista. Prima di tutto odiava le vacanze estive più di qualunque altro periodo dell’anno. Poi voleva davvero fare i compiti, ma era costretto a studiare di nascosto, nel cuore della notte. Harry, per giunta, era un mago».

Chi di voi, arrivato a questo punto, è capace di interrompere qui la lettura? Ho scelto volutamente un romanzo che la critica letteraria snobba, che non viene necessariamente consigliato a scuola. Eppure, se volete sviluppare in qualcuno la passione per la lettura, vi consiglio di cominciare da qui.

Già dalla prima frase la nostra curiosità si accende: Harry era un ragazzo insolito. In che senso? Da quale punto di vista? Odiava le vacanze estive… Già questo è molto strano… E poi voleva fare i compiti… Dunque era un secchione? Ma perché era costretto a studiare di nascosto, nel cuore della notte? Nella realtà non esistono bambini tanto secchioni da doversi nascondere per studiare. La situazione si presenta già dalle prime righe incredibile: la realtà è capovolta. Invece di ragazzini che si nascondono per non studiare, ce ne viene presentato uno che si nasconde per farlo. Che razza di genitori avrà questo Harry Potter? Andiamo avanti nella lettura, mentre tutte queste idee, associazioni, sogni o incubi attraversano la nostra mente in un “lampobaleno” (Conoscete questa parola? Poi vi rivelerò, in quale scrigno si trova…). Si diventa facilmente dipendenti da Harry e dai suoi simili.

Perché? Perché nessuno di noi vuole rimanere indietro. Nessuno di noi vuole essere meno di Harry Potter. E chi non è mago, è babbano. Non c’è offesa peggiore, nei libri di Harry Potter: babbano significa non-mago, normale. Persona incapace cioè di vedere i mondi che si nascondono dietro il reale.

«Era quasi mezzanotte, e Harry era steso sul letto a pancia in giù, le coperte tirate sulla testa come una tenda, una torcia in mano e un grosso libro rilegato in pelle (…) aperto e appoggiato sul cuscino».


 

Sin dall’inizio Harry è un bambino in viaggio, un bambino che legge un libro dentro un libro. Curiosità, immedesimazione, desiderio di fuga, capacità di raggiungere un mondo impossibile, di dimenticare la mente ristretta di coloro che usano il potere per costringerti a leggere di notte e di nascosto.

L’impegno politico o sociale

La letteratura nasce da un bisogno di evasione, ma è possibile che esprima anche la necessità dell’impegno politico o sociale. Se questo è un uomo, i romanzi di Pasolini, la letteratura e il cinema neorealista, il romanzo storico di Manzoni: si tratta di opere grandiose, che però non escludono un certo uso dell’invenzione e della fantasia. Brecht, per esempio, considerava il teatro un mezzo per cambiare il mondo. Eppure, anche lui è stato uno scrittore “fantastico”, nel senso che ha inventato personaggi universali, che forse non hanno cambiato il mondo, ma hanno cambiato la coscienza del mondo, il modo di percepirlo, di pensarlo. L’opera da tre soldi, per esempio, capovolge la morale comune e descrive i criminali che ottengono un vitalizio dallo stato, le forze di polizia corrotte, un venditore di protesi per finti mendicanti che distribuisce manifesti con frasi tratte dalla Bibbia per suscitare commozione nei passanti. E’ teatro, non narrativa, ma a noi interessa poco ora distinguere tra i generi letterari. A me interessa la capacità di narrare che ognuno di noi possiede e che solo grazie ad un difficile equilibrio di forma e contenuto diventa letteratura.

Come i buoni sentimenti da soli non sono sufficienti a fare buona poesia, così nemmeno la tecnica da sola serve a qualcosa. Dove manca la capacità di trasfigurazione della realtà, non c’è letteratura, non c’è arte. I fatti, la storia, in sé non contano nulla. Persino il giornalismo oggettivo è inesistente; la storia è fatta da visionari ed ha bisogno di interpreti. Ogni volta che si racconta “un fatto” si compiono delle omissioni, si fanno commenti, si offrono prospettive.

Roman Jakobson parlava della “funzione poetica”. Il modo in cui i fatti vengono presentati, la forma che essi assumono in un racconto, in un romanzo, sono essenziali. Senza quella “forma” particolare, che produce alcuni significati e non altri, il messaggio sarebbe diverso.

Ulisse

Faccio un salto nel passato, per andare incontro all’eroe di tutti i tempi, Ulisse. Ricordate questi versi:

«Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme, che tanto

vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:

di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,

molti dolori patì sul mare nell’animo suo,

per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni».

Per passare da un ragazzo insolito ad un eroe multiforme, si fa solo un salto di poche migliaia di anni. Eppure, le domande sono le stesse, le emozioni forti (quanto forti forse dipende dall’età, dalla cultura, da tante cose, ma un ragazzo ha i suoi eroi e i miti di oggi svolgono lo stesso ruolo di quelli di ieri). L’Odissea consente un tuffo meraviglioso in oceani profondi, profondissimi come possono esserlo solo quelli dei mondi possibili. Harry Potter ci offre una possibilità di proiezione verso il futuro. L’Odissea ci trasporta nel passato. La domanda non è più «cosa accadrà?», ma «cosa è accaduto?». L’”eroe multiforme” intanto non era nemmeno lui un uomo normale: Ulisse era insolito. Multiforme non vuol dire forse che possedeva una ricca personalità? O che le sue esperienze erano state talmente intense da riempire la vita di tanti uomini, non di uno solo. Immaginate un ragazzo di fronte al mistero di Ulisse, alle prese con le prime parole del libro: Perché distrusse la rocca di Troia? Come? Perché viaggiò molto, dove andò? Chi incontrò? Quali paesi ha visitato? Ma attenzione, Ulisse non conobbe solo città. Anche se si tratta solo di una traduzione, ascoltate che suono, che ritmo: «di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri»…

La letteratura ci insegna a capovolgere il mondo. Ci insegna la lentezza, in tempi di velocità e consumi. Ci costringe alla solitudine, in tempi di sovraffollamenti. Nell’espressione “conoscere i pensieri di molti uomini” ci sono mille vite, mille esperienze, c’è l’intensità dell’incontro, l’emozione del silenzio e la magia, la magia del raccontare e del raccontarsi. Perché le storie che narriamo, ascoltiamo o leggiamo sono soprattutto incontri con ragazzi insoliti, con eroi multiformi, con assassini, ladri, poveracci, ricche megere, potenti, amanti. Sono gli incontri im-possibili della vita quotidiana, quelli che non facciamo perché non abbiamo occhi per vedere e orecchie per ascoltare. Gli eroi multiformi suscitano il desiderio di inseguirli, di imitarli, di conoscerli meglio, di saperne di più. Perché, pur essendo eroi, hanno sofferto tanto, perché in mare. Da chi dovevano difendere la loro vita. Sono riusciti a tornare a casa, sani e salvi, con i compagni?

Il capovolgimento delle prospettive operato in letteratura è qualcosa di diverso dallo stesso atto consumato mille volte nel quotidiano. Esso è uno dei meccanismi psicologici e politici più sfruttati dalla mente umana. La letteratura, come l’arte, ha però una funzione diversa dagli infiniti atti del sopravvivere e dalle tecniche usate dalla nostra mente o dalla politica come strumento di costruzione della menzogna, per difendersi dalla verità. Nella vita di ogni giorno si possono anche operare dei rovesciamenti di prospettive, ma è difficile, molto difficile, che ciò lo si faccia allo scopo di rivelare la verità. Si tratta piuttosto di una forma di autodifesa che allontana dalla verità, perché la verità è profonda e pericolosa e può mettere in discussione la sopravvivenza psicologica degli individui e quella politica dei governi. Trasformare una bugia in verità, crederci, diffonderla, combattere per essa, è un meccanismo che ci accompagna ogni giorno, nei rapporti amicali, sociali, nelle passioni amorose, in politica. È l’atto meschino del “ribaltamento” che viene consumato da chi invade un paese per interessi economici e dice di voler esportare la democrazia. O ancora le peripezie sentimentali da vecchio fotoromanzo, dove A tradisce B e si convince che “è tutta colpa di B”.

Madame Bovary, Anna Karenina, Effi Briest

Se noi riflettiamo sui tre romanzi europei che meglio rappresentano la psicologia femminile dell’Ottocento, possiamo comprendere meglio in che cosa consista il “rovesciamento della prospettiva” in letteratura. Madame Bovary, Anna Karenina, Effi Briest, raccontano storie simili. Tre donne tradiscono il marito. Un delitto efferato, punito e pagato caramente con la vita: le tre donne vengono fatte morire dai loro scrittori. Eppure Flaubert scrisse «Madame Bovary c’est moi» rivelando così un profondo innamoramento per il suo personaggio. Nella realtà la “bugia” è il tradimento, in questi romanzi esso rappresenta una verità negata. Tre eroine sfuggono a convenzioni sociali, a matrimoni imposti e pagano una scelta di libertà con la vita. Pensate alla povera Effi, appena adolescente, costretta a sposare un vecchio corteggiatore della madre, coetaneo di quest’ultima... La verità rivelata sono i sentimenti, le emozioni, il diritto di amare di queste tre donne, negati dalla società del tempo. Non la volgarità del tradimento o delle bugie, ma la passione che seppellisce il codice d’onore e che può essere vinta solo dalla morte. Il capovolgimento della prospettiva consente di dare voce a chi voce non ha: Emma, Anna, Effi non avevano, storicamente, diritto di parola o di azione. Il romanzo restituisce alle sue eroine un diritto negato, rivela una verità, non la nasconde, non consente a chi scrive di proteggersi da essa, ma mette in discussione un sistema sociale che, nella realtà, usa le menzogne come fossero la verità, al solo scopo di garantire la propria sopravvivenza. La letteratura cambia le prospettive, rivela realtà nascoste, apre possibilità di libertà, nuovi spazi di vita, mette in discussione, provoca cambiamenti. Cerca le verità.

Gli antieroi del Novecento

Se parliamo di narrativa e del piacere della lettura, è chiaro che non ci riferiamo solo ai classici, ma anche agli antieroi del Novecento, al nostro romanzo sperimentale. È difficile immaginare che un ragazzo o un adulto di media cultura come me, possano leggere l’Ulisse di Joyce, La ricerca del tempo perduto di Proust, L’uomo senza qualità di Musil. Se parliamo di narrativa, non possiamo, come fanno i manuali, offrire soluzioni preconfezionate per ogni problema, dobbiamo aiutare gli adolescenti a riconoscere problemi, a formulare domande e anche ad accettare che le risposte non sempre esistono. La trasgressione delle regole, la creazione di linguaggi nuovi, la struttura del romanzo “rotta” e “interrotta”: questa è la narrativa del Novecento. La disgregazione dell’ordine, l’incoerenza logico – sintattica del testo, il “flusso di coscienza”, la mescolanza dei generi, i registri linguistici vari, l’infanzia schifa, il dialetto, il gergo degli adolescenti, i neologismi, il paradosso. Prendiamo, nell’Ulisse di Joyce, il racconto dei pensieri di Mister Bloom, mentre guarda le tombe in un camposanto:

«Quanti! Tutti questi qua hanno camminato un tempo per le vie di Dublino. Fedeli dipartiti. Come sei tu adesso, eravamo noi un tempo. E poi come si fa a ricordarsi di tutti? Gli occhi, l’incedere, la voce. Bene, la voce, si: il grammofono. Mettere un grammofono in ogni tomba o tenerne uno a casa. La domenica dopo pranzo. Metti un po’ su il povero trisnonno. Craaac. Prontoprontopronto sono felicissimo crac sono felicissimo di rivedervi prontoprontopronto sono feli poprszs».

Il flusso di coscienza procede per immagini incoerenti, alla fine ci sono solo i rumori. È chiaro che se la realtà precipita, il mondo diventa insicuro, instabile, l’uomo non ha più fiducia nel progresso, nella sua eternità, anche l’arte precipita. I grandi romanzi del Novecento sono per lo più opere incompiute, ma quando si profetizzava la morte del romanzo, si profetizzava la morte dell’umanità. I “grandi” del Novecento sono i più inaccessibili, al punto che dubito che tutti quelli che ne parlano come se li avessero letti, realmente li abbiano letti.

Tra questi però il mio preferito è un giovane newyorkese che odia New York, anche perché non esistono adolescenti geniali che amano il posto dove sono nati. Il giovane Holden, di Salinger, è l’anti-eroe americano per eccellenza. Ecco come inizia:

«Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne».

Consigliereste a vostro figlio di leggere un libro in cui un dropout, cioè uno studente disperso, cacciato a calci da un college, parla di “infanzia schifa” e dice “a me non mi va proprio?” Eppure, sarebbe un grave errore non farlo. Holden che gira per la sua città, dopo essere stato cacciato dal college, e vorrebbe scappare con l’unica donna con cui vale la pena parlare, scopre presto che “non si può”, come lo abbiamo scoperto tutti noi del resto. Sarà solo la sorellina più piccola, il richiamo dell’infanzia non ancora contaminata dalle bugie degli adulti, dal consumismo, dal vivere per i soldi, che lo aiuteranno a tornare a casa. Holden dice che gli fa orrore la gente che studia perché così da grande potrà comprarsi la cadillac. Il modello proposto dalla signora Moratti è proprio quello che Holden combatte. Noi abbiamo un ministro che scrive ai genitori: la nuova scuola servirà ai vostri figli per trovare un lavoro, si spera ben retribuito. Quanto sono lontani da noi i mondi fantastici dei romanzi???

Einstein diceva che bisognerebbe passare almeno due ore al giorno a pensare l’esatto contrario di ciò che pensano i colleghi.

Se questo era un buon fondamento per la scienza, volete che non sia l’origine della narrativa? Vedere tutto ciò che non è visibile. Capovolgere la realtà. Pensare il contrario di ciò che pensano i babbani. Smetterla di lamentarsi per l’infanzia schifa. Viaggiare e non accontentarsi delle città, ma possedere le loro anime. Perché nessuno vuole rimanere indietro e ognuno di noi può diventare un “eroe multiforme”. In un lampobaleno, direbbe Carmine Abate, in un altro libro fatto di mondi mischiati e capovolti.

Sempre a proposito del rovesciamento delle prospettive, mi piace chiudere il mio intervento ricordando Il senso dei luoghi di Vito Teti. Si tratta di un saggio complesso dove i diversi livelli e strumenti di interpretazione si mescolano sapientemente ad alcune efficaci tecniche di narrazione, capaci di evocare immagini, suscitare emozioni forti. Vito Teti, come tutti i grandi antropologi, è un maestro del capovolgimento del principio di realtà. Proprio lui potrebbe svelarci dove si trova il “vuoto” (la solitudine e l’abbandono) e il “pieno” (di idee, valori, significati), e come fa il senso dei luoghi a conservarsi nei non luoghi, nei paesi abbandonati, nelle città dove solo Ulisse sarebbe andato, perché non avrebbe trovato uomini ad abitarle, ma le anime degli antenati e le vie di accesso agli inferi; tra le pietre dove l’invisibilità è più consistente, dove Harry Potter non gioca più a quidditsch, il giovane Holden forse non troverebbe mai uno stagno con le ochette, ma non sentirebbe nemmeno l’orrore per una giovinezza consumata a studiare al solo scopo di avere una cadillac da adulto e per l’infanzia schifa troppo agiata e troppo sola.

«Man mano che procedevo nei miei viaggi e nella mia scrittura, mi sono accorto che bisognava rovesciare una prospettiva corrente e consueta. Bisognava, in altri termini, rintracciare, cogliere, interrogare, i segni della vita e della memoria, non già nei luoghi abitati e vissuti, pieni di gente, di oggetti, di palazzi e di macchine, ma in maniera paradossale proprio là dove i luoghi sembrano finiti, la vita cessata». (Vito Teti, Il senso dei luoghi, Donzelli editore, Roma 2004, p.X)

Raccontare significa anche andare alla ricerca di storie spesso volutamente dimenticate. Significa ridare voce al silenzio.

Oggi abbiamo bisogno di questo capovolgimento di prospettive, perché non il rumore, ma il silenzio segnala il dinamismo delle cose. Il silenzio dei paesi abbandonati, per esempio...

Badolato, 22 maggio 2004

Alcuni incipit, ovvero, non consigli di lettura, ma un invito all’incontro impossibile…

«Le scintille ci avvolgevano, sembravano sciami d’api crepitanti; poi si azzittivano spegnendosi e ci cadevano sui capelli e sui vestiti come una bufera di neve, e mio padre diceva che un fuoco così non si era mai visto, pare fatt’apposta per schiaffarci dentro i ricordi più malamenti, diceva, e appicciarli in un lampobaleno, per sempre». (Carmine Abate, La festa del ritorno, Oskar Mondadori, 2004)

«La prima cosa che la levatrice notò di Michael K quando lo aiutò a uscire dal ventre materno fu che aveva il labbro superiore leporino. Il labbro si arricciava come una lumaca, e la narice sinistra era dilatata. Nascondendendo per un attimo il neonato alla vista della madre, la donna aveva inserito il dito nel piccolo bocciolo della bocca e si era rallegrata di trovare il palato intero». (J. M. Coetze, La vita e il tempo di Michael K, Einaudi Tascabili, 1983)

«ADAM

e noi nell’ultima guerra abbiamo perso un amante. Avevamo un amante, e da quando è cominciata la guerra non lo si trova più, è sparito. Lui e la vecchia “Morris” di sua nonna. Da allora sono passati più di sei mesi, e di lui non abbiamo saputo più nulla. Noi diciamo sempre: questo è un paese piccolo, una specie di grande famiglia, se uno ci si mette può scoprire legami persino tra le persone più lontane – e invece come se si fosse splancato un abisso, una persona è scomparsa senza lasciare traccia e tutte le ricerche sono state inutili». (Abraham B. Yehoshua, L’amante, Einaudi Tascabili 1977)


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