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Data: 31/08/2008 - Anno: 14 - Numero: 2 - Pagina: 49 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

A FIMMANA A QUINDICI ANNI O A MARITI O A SCANNI

Letture: 1057               AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)        

È questo un proverbio che rivela un modo di vivere veramente arcaico e che riflette una mentalità assurda, ottusa se vogliamo, ma sempre in linea con i canoni di una civiltà ormai molto lontana.
Lo scenario è formato da tanti paesini del profondo Sud di una Calabria abbandonata a se stessa e dimenticata dal potere centrale. Parliamo di una civiltà contadina molto povera culturalmente ed economicamente, dalla mentalità arretrata e radicata a tabù e principi da rispettare ad ogni costo.
A quei tempi si considerava la donna in funzione dei problemi soprattutto economici che essa comportava in seno alla famiglia, dove la lotta per un minimo di sostentamento era quotidiana ed a volte feroce. In tale contesto una bambina veniva accolta alla sua nascita con evidente disappunto e con rammarico non celato, dal clan familiare. Al contrario la nascita di un maschio veniva accettata di buon grado e festeggiata con numerosi bicchieri di vino. Ai giorni nostri sembra impossibile che ciò potesse avvenire ma, se consideriamo ciò che una femmina rappresentava per una famiglia indigente, possiamo comprendere il perché di certi atteggiamenti discriminanti. Un figlio maschio era la positiva prospettiva di un aiuto nei lavori dei campi e quindi un sostegno per la famiglia, mentre la femmina avrebbe fatto spendere soldi per la preparazione della dote in vista del futuro matrimonio.
In un periodo in cui la moneta non circolava facilmente e spesso si barattavano i prodotti della terra per sopravvivere, pensare alla “dote” per una figlia significava affrontare enormi sacrifici, indebitamenti e privazioni di ogni genere.
“Figghja nte fasci, dota nta cascia”, si diceva, ed era esattamente così; s’iniziava a preparare la dote, ossia il corredo necessario ad una nuova famiglia sin da quando la neonata era ancora in fasce: stoviglie, biancheria e quant’altro veniva riposto in un capiente baule che si riempiva sempre di più col passare degli anni. È il caso di dire: “U porcu è ahr1a muntàgna e a cardàra gugghja” (Il maiale è ancora in montagna e già nella caldaia è pronta l’acqua bollente per spelarlo).
Dopo tanti sacrifici, preparativi ed attese, non sempre i genitori riuscivano a trovare un marito da “affibbiare” alla propria figlia, per cui cominciavano altri guai seri, soprattutto per la ragazzina che fin dall’età di dodici anni era costretta ad abbandonare i giochi tipici quali “la campàna” , “i petrùhr1i” o la bambola di pezza per assumere prematuramente il ruolo di donna da marito. In tal modo una fase molto importante della vita di un’adolescente veniva saltata a pie’ pari. E non è detto che i giovanissimi sposi poi riuscivano ad avere un tenore di vita migliore rispetto a quello della famiglia d’origine; anzi molto spesso la vita grama fatta di molte rinunce e di pochissime gioie, portavano l’uomo (più raramente la donna), frustrato ed insoddisfatto, a cercare rifugio nell’alcool. Anche in questo caso la donna era quella che aveva la peggio: oltre alla povertà era costretta a subire le ire di un marito spesso ubriaco, violento e manesco.
Passiamo ora a considerare la condizione non facile di una giovanetta che, giunta all’età di quindici-sedici anni era ancora nubile. Senza prendere alla lettera il nostro proverbio secondo cui la morte era preferibile allo stato di zitellaggio, si possono facilmente intuire i pettegolezzi delle comari, le dicerie, le pressioni psicologiche a cui la ragazza veniva sottoposta; nonché i sotterfugi, i patti, le intese dei parenti più stretti al fine di poter “conchiudere” il più presto possibile il matrimonio, punto di arrivo molto più importante per i genitori che per la sposa-bambina.
A questo punto viene spontaneo chiederci il perché di tanta fretta. Il motivo economico giocava senz’altro un ruolo importante nella faccenda (una bocca in meno da sfamare), ma il motivo più pressante era uno solo: la paura che la ragazza, circuita da qualche malintenzionato, potesse essere causa di disonore per tutta la famiglia. In casi simili l’onore era da difendere e la “vergogna” doveva essere lavata, a volte col sangue del giovine colpevole, a volte -in casi estremi- con il sacrificio della giovinetta la cui presenza era ritenuta ormai insopportabile in una famiglia “onorata”. Inoltre c’è da considerare l’atteggiamento prepotente e sfrontato di qualche signorotto locale che approfittava di ogni occasione favorevole per procurarsi un’avventura, o, a seconda dei casi, una tresca più o meno duratura con un’amante giovane. Erano questi i pericoli a cui la ragazza poteva andare incontro e che si cercava di evitare, accasandola il più presto possibile.



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