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Data: 31/12/2008 - Anno: 14 - Numero: 3 - Pagina: 11 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

IL TERREMOTO DEL 28 DICEMBRE 1908

Letture: 1161               AUTORE: Nicola Criniti (Altri articoli dell'autore)        

Il più disastroso terremoto della storia europea si verificò all’alba del 28 dicembre 1908, sorprendendo quindi nel sonno gli abitanti di Reggio e Messina. Questo primo elemento concorse a incrementare sensibilmente il numero delle vittime e segnò una notevole differenza rispetto al sisma che nel 1783 aveva colpito la stessa area. Alle 5,20 nel maggiore centro sismografico italiano (il “Centro Ximeniano” di Firenze diretto da Padre Guido Alfani) le “antenne-matite”di tracciatura uscirono addirittura dai cilindri di misurazione, per quanto fu ampia la rilevazione, senza tuttavia poter indicare dove il sisma si fosse verificato.
Nello stesso minuto in cui gli addetti ai lavori restavano sconcertati di fronte all’impazzimento delle rilevazioni, Reggio e Messina venivano rase al suolo. In poco più di un minuto venne cancellato un terzo della popolazione dello Stretto. Messina perse 70.000 abitanti su 140.000; Reggio 15.000 su 45.000. Il 95% degli edifici delle due città crollò o fu danneggiato irrimediabilmente. La ferrovia si ripiegò su se stessa e le banchine portuali si inabissarono. Lo tsunami che seguì la scossa - l’epicentro del sisma fu proprio in mezzo allo Stretto - spazzò via ciò che si era salvato nei primi minuti. Il mare si ritirò per chilometri e tornò sulla riva con almeno tre ondate spaventose. Le altezze più anomale si registrarono sulla jonica reggina. A Pellaro le onde superarono i tredici metri, a Lazzaro il mare entrò nel paese per circa 200 metri. La stessa conformazione della costa siciliana e soprattutto calabrese cambiò per sempre dopo quell’evento.
La notizia della distruzione arrivò molto lentamente al Paese, all’epoca guidato da Giovanni Giolitti. I telegrammi erano l’unica possibilità di comunicazione su grandi distanze, e necessitavano di circa due ore e mezza tra prefetture calabresi e Ministeri romani. Sulle prime nessuno a Roma saltò dalla sedia quando alcune prefetture meridionali segnalarono molto spavento tra la popolazione per le scosse telluriche di quella mattina. I governi avevano dimestichezza con i sismi della Calabria che, in materia, vantava macabri e recenti primati. La regione, nella sua area centro meridionale, era stata colpita da terremoti devastanti nel 1894 (area palmese-aspromontana), 1905 (nicastrese-vibonese) e 1907 (distruzione totale di Ferruzzano). In quei quindici anni, col terremoto del 1908, in Calabria moriranno circa 80.000 persone. Ecco perchè molti a Roma sulle prime sottovalutarono la vicenda, facendola rientrare in una sorta di “normalità” calabrese. O perchè molti sindaci di paesi già colpiti dai sismi precedenti mandassero telegrammi adirati e fuori da qualsiasi decoro istituzionale a Giolitti nelle ore successive al disastro del 1908. Il Presidente non accettò quei toni e li inserì nel solito clichè lamentoso degli amministratori calabresi, ammonendoli tramite i prefetti.
I timori a Roma cominciarono a farsi grandi quando ci si accorse che arrivavano notizie da prefetture palermitane, catanesi e siracusane o da Cosenza, Catanzaro, Vibo e Palmi. Ma nulla perveniva dalle due città in mezzo a queste, Reggio Calabria e Messina, e anzi le relative prefetture proprio non rispondevano ai telegrammi romani. In breve, dai toni dei dispacci che arrivavano a Giolitti, appariva chiaro che in Calabria i danni erano sempre maggiori spostandosi verso Sud, come in Sicilia spostandosi verso nord-est.
La prima notizia dai luoghi del disastro fu così ufficiosa. Venne trasmessa da un ambulantista postale del diretto Messina-Siracusa, Antonio Barreca, che era a Messina al momento del sisma. Dopo tre ore a piedi, raggiunse Scaletta che trasmise a Riposto e da questi a Siracusa un telegramma per il Ministero degli Interni che iniziava con due semplici parole: “Messina distrutta”. Era la prima notizia della città che arrivava a Roma. Nessuno volle credervi e si pensò pure ad un attacco di potenza estera. Le conferme “ufficiali” del disastro arrivarono a Roma solo dopo dodici ore dall’alba nera. La prima notizia “istituzionale” sulla distruzione di Reggio arrivò invece da uno stoico brigadiere, Landuzzi, che prese un messaggio del “miracolato” prefetto Orso e, un po’ a piedi un po’ a cavallo, si fece tutta la fascia jonica arrivando sino a Gerace marina (l’odierna Locri) dalla cui sottoprefettura partì il telex che Roma attendeva, rassegnata al peggio, anche su Reggio. C’erano volute quasi 40 ore per avere sul tavolo del Primo Ministro la prima notizia “ufficiale” sulla distruzione di Reggio Calabria: questa la realtà del Paese nelle comunicazioni con il suo Mezzogiorno a sette anni dalla prima guerra mondiale, che sarebbe stata combattuta con sottomarini, radar ed armi chimiche!
Il quadro del disastro, che cronisti ed inviati dei quotidiani italiani cominciarono ad offrire, lasciò sgomento il mondo intero e la nazione. Era la prima volta dall’Unità che un’emozione così forte stringeva un paese attraversato da profonde diversità e scarso sentimento di patria. L’Italia centro-settentrionale si mobilitò con rapidità, sia con sostegno economico - foraggiando le imprese di uomini come Giuseppe Micheli, che rifondavano la vita civile di Messina, o con l’opera dei Comitati delle principali città che raccolsero e gestirono i fondi della carità privata - sia con vere e proprie squadre di soccorso che spesso giunsero per prime in aiuto di paesi che non avevano visto una goccia d’acqua per giorni dopo il disastro. Tutto il Paese (come diverse nazioni estere) diede contributi di grande generosità, mentre il re e la regina accorsero sullo Stretto dopo appena due giorni. Alla stessa regina fu intitolato il Patronato nazionale che ebbe a cuore la sorte, molto contesa, degli orfani, mentre il Parlamento cominciò da subito a legiferare per l’emergenza e la ricostruzione.
Polemiche e ritardi animarono tutta la fase successiva all’evento e per ovvie ragioni di spazio non vi ci possiamo soffermare. `E9 però evidente come la questione più grave dovesse riguardare la sorte di Reggio e, soprattutto, Messina che fino al disastro era una delle dieci città più popolose d’Italia ed il quarto porto del paese. Per giorni circolò un’ipotesi assurda che lo sgomento e l’impreparazione resero verosimile: abbattere a cannonate ciò che restava delle due città. L’idea - che molti addebitarono al generale Francesco Mazza, resosi poi protagonista di deplorevoli incompetenze per tutta la gestione affidatagli del dopo terremoto - partiva dal presupposto che Reggio e Messina ormai erano perdute per sempre. Nonostante il prodigarsi dei soccorsi - i primi (e per molti giorni i soli...) dei quali furono quelli dei coraggiosi marinai russi ed inglesi, presenti sullo Stretto in quelle ore - il disastro pareva così immane da non lasciare altra possibilità. Reggio e Messina erano viste come enormi focolai di infezioni, luoghi di morte e putrefazione, ideali per le scorrerie degli sciacalli che, superstiti o scesi dalle campagne, stavano costringendo ad un durissimo stato d’assedio per tutta la prima fase post-terremoto. Lo stesso Giolitti ipotizzò di seppellire le città con una colata di calce che le ricoprisse con tutte le loro “promesse” di pestilenze e contagi. L’opposizione dei sopravvissuti, dei politici locali in parlamento, nonchè il ritrovamento di superstiti anche a 14 giorni dal disastro, smorzò questa polemica e le città tornarono alla vita negli stessi siti in cui erano cresciute da secoli. Un ritorno alla normalità che passò anche per le elezioni politiche del marzo 1909, ad appena due mesi dal sisma, che gli stessi rappresentanti reggini e messinesi vollero comunque tenere nei luoghi del disastro, a riaffermare la volontà di rinascita. Gli scampati, in attesa delle nuove edificazioni, cominciavano allora a vivere una nuova socialità all’interno delle celebri “baracche” molte delle quali visibili ancora fino a pochi anni fa, soprattutto a Reggio Calabria. Essa divenne una vera e propria “città di legno” (con tanto di “Guida delle baracche”, una sorta di “Pagine gialle” e “bianche” moderne) i cui rioni assunsero anche in questo caso nomi forestieri (specie esteri) in base alla nazione di provenienza del legno ed al disegno delle stesse “baracche”.
Cosa insegna un evento così doloroso ad un secolo di distanza? Le città sono state ricostruite, belle e in riva allo Stretto come lo erano prima dell’alba del 28 dicembre 1908. Ma gran parte di esse è risorta in deroga agli strumenti urbanistici pensati per evitare la distruzione dell’epoca. Come dopo il terremoto del 1783 erano state per gran parte disattese le norme sulle costruzioni imposte dai Borboni, così negli scorsi decenni Reggio e Messina hanno dovuto subire il loro “sacco edilizio”, deturpando rioni ed alimentando grossi interrogativi sulla stabilità degli edifici, nonostante l’uso del cemento armato. Perdere la memoria di certi eventi è rischioso. Esemplare l’episodio del terremoto del 1980 in Irpinia (1.000 morti) quando tra macerie e cadaveri di un paese i soccorritori trovarono la lastra con cui i cittadini ringraziavano un loro sindaco che, decenni prima, era riuscito a far depennare quel Comune dall’elenco di quelli dichiarati sismici.
Il complesso di celebrazioni che ricordano il terremoto del 1908, nel recupero della memoria storica (cui “La Radice” non si è sottratta neppure stavolta) deve non far ripetere gli errori del passato specie nella nostra regione che, non solo a Reggio e non solo sui terremoti, ha sempre vissuto drammatici confronti con le forze della natura. La conoscenza degli eventi, anche se lontani, porta quindi a maturare una giusta coscienza delle azioni umane in relazione all’ambiente naturale circostante (che non muta con la stessa velocità degli uomini evidentemente) ed a rispettarlo per la nostra stessa sicurezza.


IL TERREMOTO DEL 28 DICEMBRE 1908 - Nicola Criniti

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