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Autore:Vincenzo Squillacioti     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2013 - Anno: 19 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

ADELPHIANA

Letture: 1025               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

In un luogo dello Zibaldone Leopardi annota che gli “anniversari […] sono una bella illusione,
grazie alla quale le cose morte per sempre sembrano rivivere, cosa che ci consola infinitamente
allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento”.
Ognuno ha i suoi rituali nel celebrare i propri anniversari, quelli che vuole ricordare in
modo speciale perlomeno.
Io qui voglio ricordarne alcuni che hanno segnato la mia vita intellettuale.
Nel 2013 ricorrono i cinquant’anni della mia laurea e mi piace segnalare che l’evento fu
accompagnato da regali bellissimi: Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, Lessico famigliare di
Natalia Ginzburg e La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda pubblicati tutti e tre in
quel torno di tempo.
Sempre nell’ambito strettamente personale, sono dieci anni che ho lasciato l’insegnamento
universitario con largo anticipo rispetto alla scadenza naturale dell’anagrafe. E insieme,
voglio segnalare almeno per i miei dieci lettori, data l’inizio della mia collaborazione alla rivista
“La Radice”, che è l’unico esercizio critico che ho deliberato di praticare.
Seppure siano fatti di portata generale, mi è caro considerarli come fossero squisitamente
personali: i cinquant’anni della fondazione della casa editrice Adelphi e gli ottanta della
Einaudi, e in misura molto minore la nascita del “Gruppo 63”; e siccome sto scrivendo queste
righe proprio il 22 novembre ricordo l’assassinio di J.F. Kennedy.
L’annotazione a seguito della citazione leopardiana non è affatto peregrina considerato che
l’unico commercio che mi è riuscito è quello dei libri, forse l’unica cosa completamente mia
come la costruzione quotidiana della “Biblioteca come vita” che con spavalda civetteria oso
definire “sontuosa”, non già per le diverse migliaia di volumi che fanno di casa mia una casabiblioteca,
tacendo pudicamente delle appendici di una cantina altrettanto strapiena e di quella
della mia residenza estiva di Canale kilometrotre, ma soprattutto ed essenzialmente per la
qualità dei volumi che la costituiscono e che continuo ad aggiungere quasi quotidianamente.
Negli anni dell’adolescenza, tralasciando pericolosamente lo studio di alcune materie per
le quali nutrivo una sovrana ripugnanza, approfittavo della biblioteca di mio zio adeguatamente
ampliata con quei libri che riuscivo a comprare da una vecchia signora ereditati da un suo
fratello lettore onnivoro, a leggere cose che fuoriuscivano dai limiti scolastici.
L’impatto più esaltante fu la scoperta delle opere di Cesare Pavese nei “Coralli” einaudiani
giusto in coincidenza col suo suicidio. Soprattutto la veste tipografica mi ha attratto irresistibilmente
a fronte della scialba povertà dei libri scolastici e delle edizioni economiche che
acquistavo dalla citata signora.
Da quel momento la Einaudi è diventata la mia editrice di riferimento e delle migliaia di
volumi che possiedo ho scelto per le collane Einaudi scaffali particolari in maestosa evidenza:
i Millenni, il Parnaso italiano, la NUE, l’Enciclopedia, la Letteratura italiana, la Storia
d’Italia, la completa collana bianca di Poesia, e nel settore della saggistica spiccano sempre i
“Saggi” che mi hanno accompagnato negli anni del mio apprendistato e dell’insegnamento
universitario.
Felici intersecazioni sono quelle della Feltrinelli, della Bompiani, della Vallecchi e della
Mondadori (ahi quello “Specchio”d’antan) che completano la mia giovanile, e non solo, formazione
culturale. E fanno onorevole corona i raffinati Scheiwiller, le varie collane di Poesia
come quella della Garzanti, e i preziosi “diamanti” della Salerno editrice, nonché i famosi “Classici Ricciardi”.

Ma anche alcune collanine più appartate e non meno care come la Fussi per esempio.
Insomma: la contemporanea presenza delle più svariate edizioni.
Ma con altrettanta franchezza devo confessare che l’occasione più immediata di queste
annotazioni autobiografiche me l’ha fornita la pubblicazione del prezioso e affascinante volume
Adelphiana ideato da Roberto Calasso per celebrare appunto i cinquant’anni della fondazione
della casa editrice insieme a Luciano Foa e Bobi Bazlen.
Come nella mia giovinezza “einaudiano” era un marchio nobile di riconoscimento, oggi
nella mia segnaletica personale oso presumere di assumere a pieno titolo anche quello di
“adelphiano”.
Se i libri che Calasso va scrivendo con avveduta parsimonia, L’impronta dell’editore, nella
presente circostanza, costituisce un manuale di riconoscimento e di avvertimento per comprendere
il ruolo che da cinquant’anni svolge la sua casa editrice di cui dal ’71 ha assunto la
direzione editoriale e che con Giulio Einaudi è il più grande editore italiano e solo per l’anagrafe
dopo Laterza, Mondadori, Bompiani, Vallecchi, Feltrinelli, per citare solo quelli che
obbligatoriamente devono essere presenti in ogni biblioteca.
Nel libro appena citato, Calasso scrive: “Che cosa è una casa editrice se non un lungo
serpente di pagine? Ciascun segmento di quel serpente è un libro. Ma se si considerasse
quella serie di segmenti come un unico libro? Un libro che comprende in sé molti generi,
molti stili, molte epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre
un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore. Un libro perverso e poliforme,
dove si misura alla poikilia “variegatezza”, senza rifuggire i contrasti e le contraddizioni,
ma dove anche gli autori nemici sviluppano una sottile complicità, che magari avevano
ignorato nella loro vita”.
Come la Einaudi di Giulio, anche la Adelphi è una casa editrice diversa dalle altre.
E anche alla Adelphi ho destinato scaffali diversi e in evidenza per collocare i molti
Classici, e quindi la impareggiabile Biblioteca, con l’addenda “piccola biblioteca”, e anche la
splendida “La nave d’Argo”. Purtroppo il mio grande rammarico è che possiedo solo una
parte, anche se cospicua, di tutti questi tesori editoriali e culturali.
Sto sfogliando il bellissimo volume, pagina per pagina. Non è un semplice catalogo, è l’album
di una “vita per immagini” suggestiva per la “variegatezza” delle copertine con tutto
l’apparato delle “soglie” genettiane.
A pagina 23, Calasso scrive: “[…] un libro da leggere e guardare da cima a fondo, come
fosse una lunga storia a puntate. E insieme un libro dove si può entrare o uscire da qualsiasi
parte […] Per ogni anno, il lettore incontrerà una sequenza di copertine, alcune delle quali
accompagnate da parole e immagini in qualche modo pronube per capire ciò che quelle copertine
proteggevano. Parole talvolta scritte dall’autore stesso, invitato a considerarsi in prospettiva.
Talvolta da testimoni, da lettori, da critici, da altri scrittori. E immagini in diversi modi
connesse a quei libri. Anche immagini degli autori”.
Ripercorro mezzo secolo di letture straordinarie e vado segnando quelle che ancora dovrò
fare, perché come rivelava lo stesso Calasso nella trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che
fa”, i libri si possono non leggere subito, e anzi talvolta capita di leggerne qualcuno dopo
decenni, citando a tal proposito il caso di Canetti. Mentalmente cerco di verificare gli elementi
del progetto del “libro unico” teorizzato da Calasso, e condividere quello che Sterne diceva
a proposito della lettura che aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca,
per così dire, e ci accresce la vitalità.

Nelle sue Journées de lecture, Proust scrive a un certo punto: “Lascio alle persone di gusto
fare della loro stanza l’immagine stessa del proprio gusto e riempirla delle cose che piacciono
a loro”.
Io con somma e immodesta civetteria l’ho fatto e non solo la mia stanza riflette la joussance,
cioè il godimento che la bellezza delle edizioni Einaudi e Adelphi, e devo aggiungere con
pari trasporto la collocazione particolare riservata anche ai Meridiani italiani e stranieri, mi
provocano oltre ogni misura a completamento materiale, della pura e semplice contemplazione,
di quell’accrescimento culturale di cui m’hanno nutrito, anche se come ho fatto riprodurre
su una mattonella di ceramica antica che “non omnes legi, sed omnes dilexi”.
Antonio Barbuto


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