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Autore:Mario Ruggero Gallelli     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2019 - Anno: 25 - Numero: 3 - Pagina: 25 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

ANTONIO BARBUTO Leopardi traduttore del Secondo libro dell’Eneide

Letture: 938               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

ANTONIO BARBUTO
Leopardi traduttore del Secondo libro dell’Eneide
a Eleonora per il felice compimento del suo diciottesimo anno
Leopardi ha tradotto molto, più dal greco che dal latino, in due periodi ben distinti: il primo tra il
1814 e il 1817; il secondo tra il 1823 e il 1824.
Considerate le date, il primo periodo può essere visto come un tempo di studio preparatorio che
precede “l’inizio della concezione e della stesura di opere originali” (D’Intino) che si conclude all’inizio
del 1817 con la traduzione della Titanomachia di Esiodo.
Difatti, a partire da questa data, Leopardi compone le Memorie del primo amore, comincia lo Zibaldone
e nel 1818 scrive il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, le prime due canzoni
patriottiche All’Italia e Sopra il monumento di Dante che saranno poste all’inizio dei Canti.
Va osservato che da qui deriverà il futuro Leopardi fino all’autunno del 1823 e l’anno successivo
occupato dalle traduzioni del secondo gruppo, di cui sopra.
È molto importante questo periodo in quanto Leopardi progetta un tipo di prosa moderna –la
progettazione e stesura delle Operette morali-, e sente il bisogno di tornare alla poesia antica, con la traduzione
di poeti greci che definì “morali”: la Satira di Simonide sopra le donne, Ogni mondano evento
e Umana cosa picciol tempo dura se si nota che questi ultimi due componimenti saranno scorporati dal
corpus delle traduzioni e posti a sigillo dei Canti.
Come è stato osservato da D’Intino non è cosa da poco in quanto nella canzone All’Italia “l’io poetico
cede a un certo punto la parola allo stesso Simonide […] Sicché sia il primo canto, sia il libro dei
Canti si chiudono su una voce non d’autore, quella di Simonide, ricreata in lingua italiana”.
D’altronde non può sorprenderci più di tanto se ricordiamo che Leopardi si identificò con i poeti
greci che andava traducendo tanto da confessare di essere diventato poeta grazie alla lettura di “parecchi
poeti greci”. Scrive infatti in Zibaldone,1741: “ma non credetti d’esser poeta, se non dopo letti parecchi
poeti greci”.
“L’esercizio della traduzione, insomma -osserva ancora D’Intino- sembra anticipare e accompagnare
i momenti critici della creatività leopardiana […] soprattutto in quella fase, all’uscita dall’adolescenza,
in cui maturò e prese forma la vocazione poetica”.
Nel periodo delle prime traduzioni, nella vita di Leopardi era entrata in maniera decisiva la conoscenza
e l’amicizia del Giordani cui sottoporrà la traduzione virgiliana: “Ella dice da Maestro che il tradurre è utilissimo
nella età mia, cosa certa e che la pratica a me rende manifestissima. Perché quando ho letto qualche
classico, la mia mente tumultua e si confonde. Allora prendo a tradurre il meglio, e quelle bellezze per necessità
esaminate e rimenate a una a una, piglian posto nella mia mente e l’arricchiscono e mi lasciano in pace”.
È straordinario -come al solito in Leopardi- che ancora giovinetto avesse tanta lucidità nel definire la
funzione del tradurre che non si riduce a scolastico esercizio, ma diventa strumento e occasione di provocargli
l’accensione della naturale e fervida immaginazione da indurlo a pensare di sé “d’esser poeta”.
Concludendo questa parte occorre riconoscere che “la grecità si rivelò a Leopardi come un sogno”
negli stimoli che gli provocò nell’ambiente in cui si formò, il mondo favoloso degli antichi che gli alimentava
immagini e emozioni che nutrivano la sua fanciullezza.
La quantità delle traduzioni dai greci è la prova inconfutabile del ruolo che ha occupato nell’universo
umano e culturale del poeta di Recanati. In misura minore, se così possiamo dire, il mondo latino ha
esercitato una presenza discreta e meno affascinante della grecità.
La traduzione del secondo libro dell’Eneide diventa fondamentale nel momento più fertile della sua
formazione perché costituisce la precisazione consapevole della propria poetica e l’approfondimento
del suo appassionato amore per il mondo antico.
Già nel Discorso su Mosco (1815) c’è un primo riferimento a Virgilio, indispensabile se si tratta di
componimenti bucolici, anche se il giudizio su Virgilio contiene un’implicazione limitativa in quanto Virgilio
non “imita”, ma “trascrive” la natura, vista cioè attraverso la letteratura.
Quando sul finire dell’estate del ’16 Lepardi decide di dedicarsi alla traduzione del Secondo libro
dell’Eneide l’opinione su Virgilio cambia.
Il Bigi, nel suo saggio su Leopardi traduttore, individua la diversità d’opinione sulla certa mediazione
del Foscolo autore di due saggi decisivi: Sulla traduzione e Caro e Alfieri traduttori di Virgilio,
naturalmente quest’ultimo più pertinente.
Alla suggestione foscoliana s’aggiunge, con manifesta probabilità, il diverso orientamento culturale
maturato nel frattempo, a metà del ’16 quando entra nel vivo della polemica classico-romantica colla
militante Lettera ai Sigg. Compilatori della Biblioteca Italiana nella quale proponendo il modello degli
antichi dimostra che per lui la filologia non si riduce a puro esercizio privato e solitario ma è intervento
culturale e l’operazione traduttoria avrà il significato di assunzione di responsabilità in prima persona
recuperando i valori dell’antichità da opporre ai disvalori del mondo presente.
Non v’ha dubbio che l’incontro con Omero e Virgilio, i più alti esemplari dell’antico, è più complesso
e impegnativo rispetto alle traduzioni precedenti.
Qualche mese prima di affrontare la traduzione virgiliana Leopardi aveva tradotto il primo canto
dell’Odissea e nella presentazione aveva sostenuto come vincolante per ogni traduttore di testi classici
la fedeltà alla parola dell’autore. Scrive: “Chi brama sapere se io mi sia fedelmente attenuto all’originale,
apra a caso il primo Canto dell’Odissea e paragoni il verso che incontrerà colla mia traduzione
[…] Ognuno sa che per tradurre gli antichi e primamente Omero, è mestiere dottrina, ed io ho cercato
valermi della poca che posseggo”.
Ma Leopardi riconosce che non basta tutto questo a garantire un ottimo risultato. Scrive: “E sì che ho
tenuto sempre dietro a motto a motto (perché, quanto alla fedeltà di che posso giudicare co’ miei occhi,
non temo paragone)”.
Con ogni evidenza Leopardi mette in discussione il suo ruolo di traduttore: infatti in una pagina
dello Zibaldone (1820) riconoscerà che ogni traduzione è in sé impossibile perché ne risulta o una produzione
subordinata rispetto all’originale o un’opera nuova.
Leggiamo: “È certo ogni bellezza nelle arti e nello scrivere deriva dalla natura e non dall’affettazione
o ricerca. Ora il traduttore necessariamente affetta, cioè si sforza di esprimere il carattere e lo stile
altrui, e ripetere il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo. Quindi osservate quanto sia difficile
una buona traduzione in genere di bella letteratura, opera che dev’esser composta di proprietà che
paiono discordanti e incompatibili e contraddittorie. E similmente l’anima e lo spirito e l’ingegno del
traduttore. Massime quando il principale o uno de’ principali consiste appunto nell’affettato, naturale e
spontaneo, laddove il traduttore per natura sua non può esser spontaneo. Ma d’altra parte quest’affettazione
che ho detto è così necessaria al traduttore, che, quando i pregi dello stile non sieno il forte dell’originale
testo, e quando essi pregi formino il principale interesse dell’opera (come in buona parte degli
antichi classici) la traduzione non è traduzione, ma come un’imitazione sofistica, una compilazione, un
capo morto, o se non altro un’opera nuova”.
Cosicché l’acutezza del discorso leopardiano si risolve nella constatazione di inadeguatezza della
parola moderna a rendere l’animus della parola antica. Se come ritiene il Leopardi la poesia virgiliana
è un unicum, poesia senza aggettivi cioè, sarà traducibile, ma solo approssimativamente e solo da chi
possiede uno stile per eccellenza poetico.
Nella prefazione alla traduzione della Titanomachia di Esiodo, Leopardi a un certo punto scrive:
“[…] coloro (e non saranno pochi) che non crederanno poter Virgilio parlare l’italiano altramente che
presso il Caro”.
Ne è inconfutabile prova che non solo ai tempi del Leopardi, ma ancora nella seconda metà del secolo
scorso “la prima lettura dell’Eneide virgiliana si leggeva in edizioni scolastiche destinate alla quarta
ginnasio, ultima tappa di un percorso che toccava i grandi poemi dell’antichità attraverso una trafila di
grandi traduzioni, che nella scuola media inferiore metteva in contatto con quelli omerici attraverso traduttori
più recenti rispetto al Caro, cioè Vincenzo Monti per l’Iliade e Ippolito Pindemonte per l’Odissea”,
ricorda opportunamente Giulio Ferroni e allo stesso tempo riconosce che “il Caro offriva peraltro
una prima non trascurabile percezione di una misura linguistica, poetica, culturale, che rappresentava
la media del linguaggio dell’Italia del pieno Cinquecento […] con la sua misura di moderno tramato
sull’antico”. Difatti sostiene che “la traduzione cariana dell’Eneide offre un eccezionale modello di
scrittura, in cui il rapporto con il poema virgiliano è sostenuto […] dalla fluidità dell’endecasillabo
sciolto che lo scrittore assume proprio nella sua disposizione a riavvolgere dentro di sé i linguaggi precedenti
e a proiettare narrazione e descrizione in un’onda continua, sinuosa e avvolgente”.
La traduzione del poema virgiliano fu redatta negli ultimi anni della vita dello scrittore di Civitanova
Marche che, in una lettera a Benedetto Varchi del 1565, mette in luce le condizioni e gli obiettivi dell’opera
scrivendo: “è vero che ho fatto una traduzione de’ libri di Virgilio, non in ottava rima, come dite,
ma in versi sciolti […] ricordandomi poi che sono tanto oltre con gli anni […] ho trovato in far prova di
questa lingua con la latina […] So che fo cosa di poca lode, traducendo d’una lingua in un’altra, ma io
non ho per fine d’esser lodato ma solo per far conoscere (se mi verrà fatto) la ricchezza di questa lingua,
contra l’opinion di quelli che asseriscono che non può aver poema eroico, né arte, né voci da esplicar
concetti poetici, che non sono pochi che lo credono”.
Ci siamo soffermati tanto perché fu Leopardi a individuare nel 1817 il pregio maggiore del lavoro
del Caro “in quella scioltezza, o volete disinvoltura che fa parere l’opera non traduzione, ma originale. E
questa s’ha procacciata il Caro con usare parole e frasi del tutto proprie della lingua nostra, e modi non
ignobilmente volgari, che danno all’opera un colore di semplicità vaghissima e di nobile famigliarità”
(Preambolo alla versione della Titanomachia di Esiodo).
Tra le pagine critiche sul secondo libro dell’Eneide ho scoperto per puro caso in un volume scolastico
della metà del secolo scorso, pescato su una bancarella dell’usato, Il secondo libro dell’Eneide, con
introduzione e commento di Carlo Del Grande, Luigi Loffredo editore in Napoli 1957.
Ma la sorpresa per me fu che lo studioso all’inizio della sua introduzione riportava la stroncatura
violenta di Napoleone che riguardava tutto il libro citando: “Le deuxieme livre de l’Eneide est condideré
comme le chef d’oeuvre de ce poème epique; il merit cette reputation sous le point de vue du style, mais
il est bien loin de la mériter sur le fond des choses”.
Lo studioso commenta che, esaminando la narrazione dal punto di vista della verisimiglianza, Napoleone
non salva che l’episodio di Laocoonte, dove il fantastico, incidendo sulla narrazione, tutto permette.
Nella sua disamina Napoleone definisce la finta partenza della flotta greca un trucco bambinesco;
inoltre l’eloquenza di Sinone non diminuisce l’assurdità del discorso; la narrazione della presa della
città è piena di inverosimiglianze grossolane. Si rifletta che in tre ore circa, Enea non avrebbe potuto sostenere
il combattimento che narra, recarsi a difendere la reggia di Priamo, uscire dalla città e ritornare
in cerca di Creusa e Troia rappresentata come una grande città non avrebbe potuto bruciare in poche ore.
Naturalmente sono rimasto fortemente impressionato da questa casuale lettura. E nondimeno il secondo
libro dell’Eneide resta per me molto bello.
Rispetto alla “fedeltà” della traduzione omerica conseguita con criteri rigidamente letterali, in quella
virgiliana approntata qualche mese dopo Leopardi si dichiara poeta-traduttore: “so ben dirti avere io
conosciuto per prova che senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta, e meno Virgilio, e meno
il secondo libro della Eneide”, in virtù soprattutto di alcuni interventi diretti del traduttore come l’accentuazione
di elementi patetici e indefiniti e l’uso di aspri e solenni arcaismi aumentati nella revisione a
stampa del ’17, come ha rilevato il Bigi, che conferiscono alla versione virgiliana, nei confronti di quella
omerica, una sua relativa originalità letteraria.
La traduzione del secondo libro dell’Eneide, composta nei mesi di luglio e agosto del 1816, fu stampata
a Milano, coi tipi di G. Pirotta, nel 1817. Il Leopardi ne inviò copia al Mai, al Monti, al Giordani.
In seguito alle loro osservazioni, Leopardi apportò notevoli correzioni.
Oltre a segnare un capitolo fondamentale nella poetica del Leopardi. traduttore, l’esperienza della versione
virgiliana, rappresenta un momento decisivo nella formazione del linguaggio poetico leopardiano.
Ma prima dobbiamo necessariamente soffermarci sulla feroce stroncatura che De Sanctis riservò
alla traduzione virgiliana del Leopardi, nell’incompiuto saggio che riprendeva le lezioni napoletane
del 1876.
Come abbiamo già visto nella breve prefazione, composta nel 1816 e stampata nel febbraio del ’17,
Leopardi aveva aperto il conto con la classica e reputata traduzione di Annibal Caro, tornando più esplicitamente
sull’argomento pochi mesi dopo.
De Sanctis scrive che Leopardi osa “censurare il Virgilio del Caro, tenuto inviolabile da’ puristi,
quasi una divinità. E la sua censura è nuova, ed è giusta, notando che il Caro ha travestito quel Virgilio in
toga, in un Virgilio borghese […] Ma sentire Virgilio non è ricreare Virgilio, e se il giovane ebbe ragione
contro il Caro, ebbe torto a voler mostrar lui come s’aveva a fare. Non aveva ancora potenza uguale al
gusto. E gli uscì un Virgilio né togato né borghese, un Virgilio letterale.”
Il drastico giudizio s’appoggia sopra un’analisi incalzante e quasi spazientita dei primi tredici versi
del testo latino confrontati con le due versioni che, alla fine, ne escono ridotte male.
Abbiamo già visto, nella breve prefazione scritta a corredo della traduzione, come il giovane erudito
Leopardi giustificava la propria impresa: pur ammirando quel “grande scrittore” che è il Caro, è lecito
desiderare una nuova traduzione, specie se essa nasce dall’ammirazione convinta delle “divine bellezze”
dell’Eneide e dall’ardore di appropriarsene; la sua è solo una prova, non gareggia col Caro ma con
Virgilio sforzandosi di “non intoppare nel gonfio e non cascare nel basso”. Ha sperimentato le “immense
difficoltà” della prova, sempre temendo di non aver fatto poesia, ma solo traduzione.
Per De Sanctis principio inderogabile era la significatività della forma, il congegno dello stile. Lettore
attento anche del poeta latino gli riconosceva solennità di tono e armonia, la forma “plastica e
condensata, pregna di lagrime e di sottintesi, sì che la parola, oltre il suo uso materiale, te ne offre tanti
altri all’immaginazione”.
Il primo libro finiva coll’invito pressante di Didone a Enea a raccontare la caduta di Troia.
Il primo verso del secondo libro è il “magnifico preludio” Conticuere omnes intenti ora tenebant.
De Sanctis nota che questo verso fa cadere un alto silenzio immediato e lo illumina con una “forma
plastica”: le “facce tese” della grande aspettazione. Così il verso ottiene un grande effetto di straordinaria
tensione. Il verso in sé concluso comincia e finisce con due verbi, scalati nei tempi: il perfetto iniziale
indica l’istantaneità, l’imperfetto finale indica la durata e la continuità dell’atto.
Il Caro fa esattamente il contrario: traducendo “analizza, spiega, descrive, diluisce l’unità in epiteti
quasi sinonimi quella eloquente unità e fissate le immagini e i sentimenti che ti fluttuano al di dentro
della parola latina”. Basta citare le righe seguenti: “Dolorem infandum” è tradotto “dogliosa istoria”.
Dov’è quel terribile “infandum”? E quel “dolorem” che legato a quell’“infandum” investe e domina
tutto il vero, eccolo qui, è svaporato in un epiteto: “dogliosa istoria”.
Le puntuali osservazioni desanctisiane evidenziano un risultato insufficiente. Ma il Caro non era interessato
al tono epico e il giovane Leopardi aveva ragione quando sosteneva che la traduzione del Caro gli
pareva un travestimento borghese di Virgilio, trasformando l’epica in romanzo, il sublime in melodramma.
Passiamo ora a vedere come il critico si comporta nei confronti del giovinetto Leopardi avvertendo
subito che c’è una discrepanza tra il testo che leggeva il De Sanctis e quello che leggiamo noi da molti
anni, e quindi nell’edizione critica procurata da Luigina Stefani.
Leopardi, appena pronta la sua “opericciuola”, desiderando ardentemente di farsi conoscere dai
letterati “sommi” e smanioso di avere il loro giudizio la manda ad Angelo Mai, a Vincenzo Monti e a
Pietro Giordani ricevendone importanti osservazioni su pregi e difetti della traduzione.
Difatti, già il 21 marzo 1817 scrive al Giordani: “sappia che una copia del mio libro è già tutta carica
di correzioni e cangiamenti”. Aggiungendo naturalmente che si è preoccupato di togliere quello che al
Giordani e al Monti non era piaciuto. Poi tornò a più riprese sul testo, e quasi un secolo dopo la sua
morte la copia fu rinvenuta (tra le carte del Ranieri). Soltanto dal 1935 si stampa la traduzione riveduta.
Se la vistosa infedeltà del Caro lo aveva irritato, De Sanctis è deluso profondamente dalla fedeltà
letterale leopardiana: “Ciò che egli dice è proprio il testo, e come il testo lo dice, ma quegli atti e quei
gesti imitati da lui sono goffaggini, e non c’è spontaneità, né sveltezza, e non sentimento e non colorito.
C’è l’“infando dolore” e il “miserando regno”, ma questo italiano è non altro che la lettera del testo latino,
e non genera né quelle immagini, né quelle armonie, né quei sentimenti, massime in compagnia di
forme prosaiche e volgari, come il “tantas opes” divenuti i “teucri averi”, e il “renovare iubes” divenuto
un “cui tu m’imponi ch’io rinnovelli”.
Continua quasi spietatamente: “Conticuere è l’ammutirono” […] e il “fissi in lui Teneano i volti”,
oltre quello “in lui” che andava sottinteso, ed è espresso, e peggio in fin di verso, non rende quella forma
plastica virgiliana, quella tensione di volti. O chi riconoscerebbe il “talia fando” ed il “temperet a
lacrimis” in quello: “E qual potrebbe rattenere il pianto, Tai cose in ragionando?”.
E quel “suadent somnos” divenuto un “vanno persuadendo il sonno”; e quel “Tantus amor” divenuto
un “ti diletta, e hai desio”; e l’“horret” divenuto un: “all’alma orrendo”, e il “luctu” plastico trasformato
nel subbiettivo “addolorata”! In verità basta”.
Alla fine di tante osservazioni stizzite, il critico sbotta quasi teatralmente: “Volete sentire il vero
traduttore di Virgilio? Volete il poeta che rende il poeta, ma a modo suo e con tono e con accento suo?
Eccovi avanti l’“infandum iubes renovare dolorem”: “Tu vuoi ch’io rinnovelli / disperato dolor”?
E il “quis temperet a lacrimis”? Eccolo: “E se non piangi di che pianger suoli?”. E la simultaneità
del “fando” e del “lacrimis”? Eccolo: “Parlare e lacrimar vedraimi insieme”.
E il “tantus amor nostros conoscere casus? “Ma se a conoscere la prima radice /del nostro amor tu
hai cotanto affetto”.
Eccovi il traduttore di Virgilio. A che distanza stanno dai due poeti il vecchio Caro e Leopardi ancora
giovanetto”.
A partire dalla seconda metà del secolo scorso alcuni studiosi, eccellenti leopardisti e non solo, hanno in
parte giustamente riveduto e corretto il giudizio negativo del De Sanctis sulla eccessiva fedeltà del traduttore
al testo latino “considerando quella fedeltà non come goffaggine, ma come il frutto di una scelta cosciente,
ossia una volontà di aderenza assoluta alla parola dell’originale (secondo la proclamazione contenuta nel
proemio della versione: “E sì ho tenuto sempre dietro al testo a motto a motto”), nella persuasione di rendere
in tal modo quella verità poetica di natura, ritenuta propria degli antichi e teorizzata nella contemporanea
Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana in risposta a quella della Stael ai medesimi.” (Blasucci).
Occorre riflettere sul fatto che Leopardi proprio nel momento del confronto col testo virgiliano
assume un atteggiamento molto diverso da quello tenuto negli esercizi di traduzione precedenti. I passi
della prefazione già riportati rivelano “un entusiasmo poetico che sottende una fondamentale adesione
critico-ideologica. È indubbio dunque che, se l’incontro con Virgilio è importante per il traduttore, esso
è altrettanto importante per il futuro poeta il quale giusto in questo momento scopre la poesia virgiliana,
vi si immedesima. Nella prefazione non sono indicate le ragioni di tanta adesione; ma si possono
rintracciare a posteriore in alcune pagine dello Zibaldone, dove la presenza di Virgilio continua allargandosi
anche all’ambito della filosofia leopardiana. Si veda il pensiero del 6 settembre 1820, dove il
Leopardi considera Virgilio in un discorso che lo ricollega alla propria esperienza autobiografica, tutto
convergente al sistema dei propri sentimenti e della propria poesia.
Al tempo della traduzione questa “simpatia” non è ancora motivata teoricamente, ma muove da essa
il desiderio della comprensione profonda e, con quel desiderio, la necessità della compresenza del poeta
nell’opera del traduttore, congiunta però alla consapevolezza della difficoltà di attuare un equilibrio
così delicato: quanto più perfetta è l’immedesimazione che egli ha raggiunto con l’originale, tanto più
profondo è il senso di impotenza che lo assale di fronte ad esso, perché tanto più inadeguati gli appaiono
i mezzi a propria disposizione per tradurlo. Così la sua presenza critica si risolve in una constatazione di
inadeguatezza della parola moderna a rendere l’anima della parola antica.” (Stefani).
La lunga citazione è dovuta alla chiarezza con cui viene illustrata l’importanza speciale che la traduzione
virgiliana assume nella carriera leopardiana, come dimostrano le risonanze, le riprese di parole
che saranno individuate nei Canti da alcuni eccezionali commentatori (dallo Straccali al De Robertis, al
Fubini e Bigi) e dagli studiosi che si sono occupati dell’argomento.
La parziale correzione e revisione del giudizio troppo decisamente negativo desanctisiano è dovuta,
dopo l’avvio del saggio del Bigi, a tre studiosi che tra gli anni settanta e novanta del secolo scorso hanno
affrontato l’argomento e, diversamente tra loro, hanno individuato nella traduzione leopardiana del
secondo libro dell’Eneide, una evidente cospicua fonte per i Canti.
Nel suo ampio e dettagliato saggio la Stefani, a un certo punto, si sofferma sullo stile della traduzione
osservando che “il Leopardi si tiene il più possibile lontano dal linguaggio normale (dalle ‘parole e
frasi in tutto proprie della nostra lingua’) ed ‘inventa’ strumenti espressivi che, per la loro lontananza
dal consueto, siano atti a riprodurre l’atmosfera di eletta superiorità che egli sente propria del poema
virgiliano e iscrivano la traduzione in un piano stilistico costantemente alto”.
Non potendo riportare lo spoglio eseguito dalla studiosa, basti elencare qui gli elementi che costituiscono
questa tendenza verso l’illustre: i frequenti e numerosi latinismi, fonetici ma più numerosi
quelli lessicali, i latinismi semantici e sintattici. La studiosa annota anche che “molti di questi
latinismi sono traduzione letterale di corrispondenti termini virgiliani, altri sono invece introdotti dal
Leopardi”.
All’interno di questa tendenza vanno iscritti i numerosi e frequenti arcaismi. Ne deriva che nelle
correzioni che Leopardi apporta sul testo apparso sullo “Spettatore”, “il lessico è sottoposto ad una
revisione dalla quale esce con una patina illustre più segnata”.
Anche le correzioni di carattere strutturale si iscrivono in questa tendenza verso l’alto nell’opzione
per una sintassi tutta letteraria. Infatti il Leopardi, nel lavoro correttorio e di revisione, mostra una evidente
incontentabilità con interventi sulla struttura di molti versi o di interi periodi alla ricerca di armonia
e musicalità, talvolta mediante la sola ridistribuzione delle parole talaltra trasformando interamente
il periodo.
La studiosa indica “un’altra direzione fondamentale delle correzioni [nella] ricerca di una maggiore
essenzialità linguistica” e persino coll’eliminazione di perifrasi più o meno presenti in Virgilio.
Molto opportunamente la Stefani osserva che “la ricerca di una resa linguistica più sintetica è in
generale determinata dalla preoccupazione di evitare che il testo latino risulti in italiano eccessivamente
diluito, per le differenze oggettive esistenti fra le due lingue, soprattutto in sede poetica”.
Nelle ‘conclusioni’ del suo saggio la Stefani sottolinea che “la scelta di precludersi ogni libertà interpretativa
è coerente con l’idea che il Leopardi ha della poesia virgiliana e della poesia antica in genere.
Se questa è unica e perfetta, il traduttore, trasportandola in un’altra lingua, deve cercare di salvarne ogni
particolare, pur con la coscienza dell’irripetibilità del modello […] di qui le censure al Caro e l’individuazione
di un modello alternativo nello stile pariniano, che per la sua complessa arcaicità appare al
Leopardi il più adatto a rendere l’atmosfera alta e solenne dell’originale”.
Infine, la studiosa sostiene che “il risultato del lavoro leopardiano si distingue nella storia delle traduzioni
virgiliane sia per la complessità dell’atteggiamento teorico che ne costituisce il presupposto, sia
per il suo valore filologico e cioè per l’intelligenza storico-linguistica in esso impiegata”.
Già nel titolo Una fonte linguistica (e un modello psicologico) per i Canti: la traduzione del secondo
libro dell’Eneide, Luigi Blasucci esplicita a chiare lettere la specificità della ricerca. L’autore dichiara
subito che il suo discorso “non riguarda propriamente l’originalità della traduzione in se stessa, quanto
la sua importanza agli effetti del linguaggio poetico dei Canti, e in particolare delle prossime canzoni”
perché, secondo lo studioso, “l’esperienza della versione dell’Eneide, oltre a segnare un capitolo fondamentale
nella poetica del Leopardi traduttore, rappresenta un momento decisivo nella formazione del
linguaggio poetico leopardiano”.
Lo studioso ricorda che, già nel 1942 in un articolo intitolato Inizio del Leopardi, Giuseppe De Robertis
aveva individuato nella giovanile versione virgiliana, “il primo acquisto d’un tono poetico alto,
d’una cert’aria grande, d’una versificazione complessa, d’un fatto di stile, insomma, già maturo”.
Nonostante alcuni precisi riscontri già presenti nel commento dello Straccali, per esempio, e quelli
individuati da Hans Ludwig Scheel entrambi utilizzati nei commenti del Fubini e Bigi e di Domenico
De Robertis, “una ben più nutrita serie di riscontri è ricavabile infatti da una lettura sistematica della
versione virgiliana […] assai utili per una ricerca genetica del linguaggio poetico leopardiano[…] all’interno
di quel linguaggio”.
Blasucci esegue una rilevazione ampia e dettagliata su “singoli elementi lessicali espressivamente
notevoli, tali cioè da non potersi considerare delle pacifiche assunzioni dalla media poetica del tempo”.
I prelievi sono (forse) tutti quelli possibili e naturalmente provano inconfutabilmente l’idea che
sottende il discorso critico di Blasucci. Non potendo ovviamente riportarli, riferisco l’indicazione dei
raggruppamenti che li comprendono: la presenza di alcuni forti latinismi direttamente suggeriti dal
testo virgiliano; ma anche latinismi meno forti; vocaboli carichi di espressività; alcune brevi frasi sintatticamente
compiute, e un notevole gruppo di riprese costituito da frasi più ampie e sintatticamente
articolate, con la conservazione più o meno evidente di elementi sintattico-metrici, e alcune espressioniformule
che hanno nella versione virgiliana il loro primo collaudo.
Lo studioso sottolinea che “a un primo computo statistico dei riscontri segnalati s’impone immediatamente
una constatazione: essi investono in larga prevalenza il primo Leopardi […] Un’altra constatazione
altrettanto evidente è che all’interno del primo Leopardi la bilancia pende nettamente in favore
delle canzoni rispetto agli idilli […] Una terza constatazione riguarda le riprese all’interno delle stesse
canzoni”.
Dopo una mappa pressoché totale di esempi e occorrenze, Blasucci opportunamente avverte che “il
rapporto tra Leopardi e il secondo libro dell’Eneide non passa tutto attraverso la traduzione giovanile:
alcune proposte dell’originale diventeranno infatti operanti nella mente di Leoprdi solo in tempi posteriori
alla traduzione”. Anche questo rilievo importantissimo viene attestato da prove inconfutabili.
Blasucci conclude il suo rigorosissimo studio definendo “tendenziosa” l’ottica del traduttore, nonostante
la proclamata intenzione di una fedeltà assoluta alla parola originale. E ricordando le accentuazioni
nel senso del patetico e dell’indefinito già rilevate dal Bigi, ritiene che è necessario “specificare che
tali accentuazioni cooperano a una resa alta del dettato, conforme all’idea di uno stile virgiliano consistente
in un ‘dire sempre grande, sempre magnifico, sempre segnalatamente nobile, sempre superiore a
quello del comune degli uomini’, com’è definito nel proemio alla versione della Titanomachia di Esiodo
(1817), dove censura la ‘semplicità’, la ‘famigliarità’ della traduzione del Caro”.
Per lo studioso quest’idea dello stile virgiliano è “stata soprattutto suggerita e insieme collaudata
dalla traduzione del secondo libro dell’Eneide”. Le ragioni della predilezione del traduttore per il testo
tradotto sono attestate eloquentemente nel proemio al lettore.
Blasucci, infine, cita una annotazione di Antonio La Penna che parla di una “narrazione riportata al
punto di vista del personaggio in azione e liricamente commentata dall’autore”. Infatti si verifica nel secondo
libro “dove la voce dell’autore finisce con l’essere assunta dal personaggio narrante, che è anche
protagonista dell’azione narrata: ne consegue un forte incremento di quei moduli di intervento diretto
nella narrazione, che ne fanno del secondo libro […] un testo abbastanza caratterizzato rispetto al resto
del poema. È lì che Leopardi ravvisa un modello di voce, un esemplare di protagonismo poetico (eroico,
elegiaco, riflessivo), quale egli poi coltiverà nelle canzoni, ma anche nelle elegie e persino in qualche
momento più ‘gesticolante’ degli idilli”.
Terzo e ultimo cronologicamente il saggio di Gilberto Lonardi il quale afferma che “la traduzione
leopardiana va sempre più riconosciuta come il primo gesto poetico importante del giovane Leopardi”
e si sofferma sulla diversità d’uso del testo virgiliano di Manzoni e di Leopardi.
Tralasciando gli accenni che riguardano Manzoni, Lonardi riconosce che in Leopardi “colpisce il
fatto che siamo messi sulle tracce di un utilizzo del secondo libro dell’Eneide a più livelli: quello all’ingrosso
patetico-eroico, accanto a quello elegiaco-riflessivo”.
Per lo studioso le relazioni che corrono tra Leopardi virgiliano e Canti leopardiani di derivazione
virgiliana “non sono solo quelli eroici, benché siano questi a prevalere […] varrà almeno l’ipotesi di casi
in cui i significanti sciamino all’autore in proprio anche senza stretto accompagnamento di significati; o
l’ipotesi […] di casi in cui arrivino in prima istanza, al traduttore, solo i recipienti, le forme di contenuto,
‘in attesa’ che all’autore in proprio arrivi anche la sostanza del contenuto medesimo”.
Leopardi nel proemio confessa: “mi fui avventato al secondo libro del sommo poema, il quale più
degli altri convenia, e infocandomi e forse mandando fuori alcuna lagrima”.
Lonardi commenta queste righe così: “Spasimo, fuoco e lacrime. È la recita per la quale passa l’identificazione,
dato non preminente del rapporto leopardiano col modello se si guardi alla traduzione
soltanto, ma produttrice, insieme, di consonanza e di oltranza, e a molti registri, se si guardi di dentro il
sistema traduzione-opera in proprio”.
I riscontri che Lonardi produce sono “tutti o quasi nuovi, se mai addizionabili a quelli del Blasucci
pur numerosi (oltre che ben vagliati e organizzati)”.
Gli ultimi esempi che Lonardi segnala “riconducono a quella identificazione dell’io con il personaggio
virgiliano, che la recita stessa, dell’io a se stesso, dell’Eneide, nel fuoco, nelle lagrime di un intensissimo
teatro del giovane quale ci si mostra nelle parole stesse leopardiane di accompagnamento alla
versione, estende oltre l’identificazione più costante, quella con l’eroe dell’ultima notte della patria, per
avvolgere anche, sia pure per casi isolati, altre persone del poema: il Vecchio (Anchise), l’innamorato
(ancora Enea).
Riporto almeno due esempi: Iam pridem invisus et inutilis annos / demoror (Aen.2, 647-648); Leopardi
traduce: “in ira ai Numi il tempo / E disutile io traggo (873-874).
Nelle Ricordanze (1829), vv. 38, 46-47, 49: “Qui passo gli anni, abbandonato, / occulto […] “ti
perdo / senza un diletto, inutilmente” […] “o dell’arida vita unico fiore”.
Anche il secondo esempio conduce alle Ricordanze: Maestusque Creusam / nequiquam ingeminans
iterumque iterumque vocavi (Aen.2, 769-770), Leopardi traduce: “E mesto in van più volte / Creusa
ahimé / chiamai, Creusa mia” (1033-1034) che rimanda all’invocazione “Ahi Nerina! […] Nerina mia”
preceduto (135) da un altro verso memorabile “se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta”.
Lonardi chiude il suo notevole saggio così: “Da Virgilio alla versione alle Ricordanze, il ritornante
luogo del vocativo iterato, più l’interiezione esclamativa, serrando in uno stesso ordine il nome dell’amata
e giovinezza, ci dicono di quanta carica autobiografica e simbolica Leopardi investisse, come
appena più sopra con Anchise, qui la persona della giovane / giovinezza, offertagli con la mediazione di
Enea dalla virgiliana Creusa (a conferma, vedi i Ricordi d’infanzia e di adolescenza).
NOTA
Tutte le citazioni sono tratte dai volumi e dai saggi indicati nella bibliografia.
BIBLIOGRAFIA
Virgilio, Il secondo libro dell’Eneide, testo latino, introduzione e note di Carlo Del Grande, Luigi
Loffredo editore in Napoli, 1957
Giacomo Leopardi, Tutte le opere, con introduzione e a cura di Walter Binni con la collaborazione
di Enrico Ghidetti, Firenze, 1969
G. Leopardi, Poeti greci e latini, a cura di Franco Intino, Salerno editrice, Roma 1999
F. De Sanctis, Leopardi, a cura di Carlo Muscetta e Teresa Perna, Einaudi, Torino 1960
Emilio Bigi, (Il Leopardi traduttore dei classici 1814-1817), in “Giornale storico della letteratura
italiana”, CXLI, 1964
Luigina Stefani, La traduzione leopardiana del secondo libro dell’Eneide, in “Studi e problemi di
critica testuale”, n. 10, 1975; n. 11, 1975 (contiene l’edizione critica del testo leopardiano)
Luigi Blasucci, Una fonte linguistica (e un modello psicologico) per i Canti: la traduzione del secondo
libro dell’Eneide, in Atti del V convegno (Leopardi e il mondo antico), Olschki, Firenze 1982
Gilberto Lonardi, Le stelle, l’intrigo: appunti su Leopardi Manzoni e il secondo libro dell’Eneide, in
“Miscellanea di Studi in onore di Vittore Branca”, vol. IV, tomo II
Giulio Ferroni, La più bella tra le infedeli, introduzione alla riproduzione anastatica de L’Eneide di
Virgilio del commendatore A. Caro, In Venetia, M.D.LXXXI, Metauro Edizioni, Pesaro 2008
A. Caro, Lettere famigliari, a cura di Aulo Greco, vol. III, Olschki Firenze 1961


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