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L’ETNOGRAFA GIOVANNA MARINI E LA SUA SCUOLA PER UNA SETTIMANA DI STUDIO A BADOLATO E RIACE
Autore:Guerino Nisticò     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/08/2015 - Anno: 21 - Numero: 2 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

CULTURA E RELIGIONI* (Seconda parte)

Letture: 154               AUTORE: Gerardo Pagano (Altri articoli dell'autore)        

Il 29 Giugno scorso un uomo di nome Abu Bakr al-Baghdadi si è autoproclamato Califfo dello
Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, un territorio tra la Siria e l’Iraq occupato militarmente negli
ultimi due anni nel contesto delle guerre civili che infiammano i due paesi medio orientali. È quindi
da tempo che le bandiere nere del califfato sventolano sulle città, sui campi di battaglia e nei video in
cui i seguaci del califfo celebrano le loro imprese sanguinarie. Il “Califfato” può essere costruito solo
intorno ad una “centralità araba”. Troppe ragioni influiscono a spingere in questo senso: a cominciare
dalla contiguità geografica dei paesi arabi a proseguire con il ruolo della lingua veicolare del mondo
islamico che è, appunto, l’arabo, per concludere con la presenza dei luoghi santi dell’Islam in territorio
arabo (salvo il caso particolare dell’Iran). E, peraltro, i grandi paesi islamici non arabi, tendono
a giocare piuttosto un ruolo di media potenza di interesse regionale che non ad assumere un ruolo
guida dell’Umma. (Nel Corano, la comunità dei credenti; con la nascita degli Stati-nazione anche
nell’area mediorientale, alcuni movimenti politici hanno utilizzato il termine umma per tradurre il
concetto di nazione, da cui ummat al-‛arabiyya, «comunità araba», nel senso di nazione araba).
1. Tra gli studiosi di storia contemporanea c’è chi è convinto ancora che alla radice dell’attuale
ribollire del mondo islamico, arabo e non arabo, ci sia la mancata soluzione del conflitto palestinese.
E qui il discorso deve necessariamente riguardare Israele: sarebbe lungo e complesso chiarire
tutti gli aspetti teologici e storici dell’Ebraismo. Chiariamo subito che è la religione con la quale il
Cristianesimo ha il più stretto legame perché Gesù era ebreo ed ebrei furono i suoi primi seguaci.
Dall’Ebraismo il Cristianesimo trae una parte delle proprie Scritture (l’Antico Testamento), l’idea
del Dio unico creatore rivelatore e guida della storia e le basi della sua visione morale. La divergenza
sostanziale con l’Ebraismo sta nella credenza in Gesù Cristo Dio e uomo e nell’interpretazione di tutta
la rivelazione biblica che da questa credenza in Cristo deriva. Il fatto che la maggioranza degli ebrei
del I secolo non abbiano aderito alla predicazione dell’ebreo Gesù e che nei secoli successivi l’Ebraismo
abbia continuato ad esistere e a svilupparsi ha portato ad aspre polemiche teologiche e politiche.
Dal punto di vista teologico i cristiani hanno spesso pensato che il popolo ebraico, avendo rifiutato
di credere in Gesù Cristo, avesse perduto il diritto di considerarsi il popolo di Dio, e che la Chiesa
fosse ormai il nuovo Israele che aveva sostituito l’antico Israele. Quando i cristiani conquistarono il
potere nell’impero romano, cominciarono a perseguitare gli ebrei, limitandone le libertà e i diritti. Si
diffuse anche la concezione per la quale gli ebrei avrebbero perduto il diritto alla propria terra destinata
ormai da Dio al possesso dei cristiani. La storia secolare della presenza delle comunità ebraiche
nei territori a maggioranza cristiana non è fatta, però, solo di intolleranza e persecuzione, testimonia,
anzi, uno scambio continuo creativo da ambedue le parti, anche se non mancano periodi ed episodi
di straordinaria violenza e drammaticità. Un cambiamento nella storia degli Ebrei si realizza alla fine
del XIX secolo con la nascita del sionismo. La parola deriva ovviamente da Sion, monte su cui sorse
l’originario nucleo dell’attuale Gerusalemme. Sionista è colui che aderisce e promuove il “sionismo”,
movimento sorto alla fine del XIX secolo tra gli Ebrei residenti in Europa appartenenti alla diaspora,
il cui fine è l’affermazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione
di uno stato ebraico. Il sionismo fa parte del più vasto fenomeno del nazionalismo moderno. Il fenomeno
del sionismo è anche collegabile all’attesa dell’era messianica, anzi per molti ne segna l’inizio.
Il Sionismo, riferito al diritto di Israele ad esistere, alla difesa, e all’autodeterminazione, rappresenta
un valore assoluto che può essere riconosciuto o negato divenendo così una sorta di spartiacque: in
altre parole, è legittima ed accettabile la critica alla politica dei Governi di Israele ma i valori stessi
del sionismo (diritto ad esistere ecc…) non possono essere messi in discussione. L’anti-sionismo è la
negazione appunto di questi diritti. Il termine “Sionismo” viene oggi erroneamente utilizzato per lo

più in riferimento alla politica di Israele ma, sebbene il sionismo sia un movimento fondamentalmente
politico e nonostante la politica israeliana non possa prescindere dal sionismo, la sovrapposizione
dei termini non è corretta, prova ne è che questo “sionismo” oggi tanto osteggiato (o meglio ciò che
oggi viene considerato tale) è invece il frutto della politica di un governo “religioso ortodosso” che
ha sempre a sua volta criticato ed osteggiato il movimento sionista in quanto movimento laico e non
religioso. In realtà la questione è più complessa e, personalmente, ritengo che il sionismo sia un movimento
trasversale con componenti sia laiche che religiose. Dopo la Shoah, nelle chiese cristiane,
soprattutto protestanti e cattoliche, si è sviluppata una radicale autocritica dell’antisemitismo cristiano
che ha portato ad un diverso tipo di rapporti e ad una diversa teoria dei rapporti tra le due religioni.
La fondazione dello stato di Israele, nei territori che fino al 1948 avevano costituito il Protettorato
inglese della Palestina, ha indubbiamente creato una serie di problemi, che, secondo la mia opinione,
la attuale politica israeliana di espansione territoriale non contribuisce a risolvere. Sarebbe ideale uno
stato democratico in cui Ebrei e Palestinesi potessero convivere, come avviene in molti stati multietnici,
ma è un progetto irrealistico. Bisogna allora tornare alle decisioni dell’ONU: al riconoscimento
dello stato di Israele, entro confini certi e inviolabili, corrisponda il diritto dei Palestinesi ad un loro
stato con la stessa certezza e inviolabilità di confini. È la soluzione auspicata dalla Comunità Europea,
alla quale devono convergere gli sforzi politici e diplomatici soprattutto i più direttamente interessati,
Palestinesi ed Ebrei.
2. Questa necessariamente breve analisi è finalizzata a sottolineare la inderogabile necessità che
il discorso sulle religioni, in questo caso le tre religioni monoteiste, sia affrontato con un approccio
culturale serio, costruito sulla conoscenza delle posizioni teologiche e dell’intreccio tra religioni e
politica nella storia dei popoli. Solo la conoscenza, culturalmente fondata, consente di superare ogni
fanatismo perché predispone alla comprensione delle diversità che si confrontano non solo sul piano
delle tradizioni e delle credenze, ma anche concretamente nelle abitudini e nelle consuetudini della
vita quotidiana. A questa acculturazione deve mirare anche la scuola, se siamo convinti che l’esperienza
religiosa è un aspetto inderogabile della vita umana, anche quando approda alla convinzione dell’ateismo.
E qui si pone la questione dell’insegnamento della religione. Da 30 anni nelle nostre scuole è
stato introdotto l’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC): la decisione fu assunta nell’ambito
del nuovo concordato firmato dall’on. Craxi, per l’Italia, e dal card. Casaroli, per la Santa Sede. Non
mancano gli aspetti problematici: la non obbligatorietà è spesso divenuta disimpegno rispetto al lavoro
scolastico; la selezione del personale docente è lasciata all’Autorità ecclesiastica, che così svolge
funzioni di competenza statale; ma soprattutto manca all’insegnamento della Religione Cattolica lo
statuto di tutte le discipline scolastiche con un oggetto (il programma) e una didattica che sono le
caratteristiche di tutte le altre discipline: obbligatorietà, nomine dei docenti attraverso graduatorie
pubbliche, indicazioni programmatiche a livello ministeriale tenendo conto della recente normativa
sull’autonomia; una valutazione degli esiti formativi. L’insegnamento, infine, comporta una elaborazione
scientifica, di cui il docente si assume la responsabilità. A questi problemi si fa fronte, come
capita spesso nella Pubblica Amministrazione del nostro Paese, con la buona volontà, il buon senso di
chi opera, per cui non mancano esempi validissimi di esperienze didattiche significative, che tuttavia
non risolvono le questioni normative. In occasione della strage di Parigi, rappresentata anche come
scontro di religioni, è stato rilevato che se la prima funzione della scuola è abituare le coscienze all’uso
critico della ragione (e non solo - per quanto importante sia - la preparazione al mondo del lavoro),
non è possibile non chiedersi come si possa pensare che questo uso critico venga appreso ed esercitato
all’interno di una cultura limitata e provinciale qual è, oggi, quella che ignora la moltitudine delle diversità,
comprese quelle religiose. Così il prof. Paolo Scarpi, presidente del corso di laurea magistrale
in Scienze delle religioni dell’università di Padova, propone l’ora obbligatoria di storia delle religioni
a scuola introducendo la Storia delle religioni quale materia curriculare nella scuola italiana, senza che
in alcuno modo questa diventi una materia alternativa all’insegnamento della religione cattolica (Irc).

In un momento così delicato e grave, nelle scuole una materia curriculare come la Storia delle religioni
potrebbe essere un utile e importante strumento di sensibilizzazione per imparare ad affrontare il
rapporto con le differenze culturali. Può essere uno strumento per affrontare il dialogo all’interno di
una prospettiva multiculturale e può anche essere uno strumento per aprire le menti all’accettazione
delle differenze, senza per questo ricorrere alla violenza, smascherando insieme le strumentalizzazioni
della sensibilità religiosa, e aiutando infine a distinguere tra ciò che può essere chiamato religione e
ciò che con tale termine ha poco a che fare. Il prof. Scarpi conclude: “Insegnare le religioni in forma
monografica serve a poco, anche se può essere un utile esercizio erudito; insegnare quelle che possono
essere chiamate religioni attraverso la comparazione e la storia, dal loro formarsi alle loro trasformazioni,
comprendendo i rispettivi imprestiti, può aiutare molto, soprattutto a rispettarsi: e non sarebbe
poco”. Il superamento dell’IRC con l’insegnamento obbligatorio della Storia delle religioni, organizzato
secondo tutti gli aspetti di una didattica scientifica e affidato a docenti con adeguata preparazione
accademica, oltre a costituire il definitivo approdo al chiarimento dei compiti di Stato e Chiesa nella
scuola, sarebbe un contributo essenziale per la diffusione della cultura religiosa nel nostro Paese.
Gerardo Pagano
* Riprendo i temi di una conferenza tenuta il 6 febbraio 2015 all’Università della Terza Età a Soverato.


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