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Autore:Mario Ruggero Gallelli     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2008 - Anno: 14 - Numero: 1 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

DI VINCENZO AMMIRA

Letture: 1050               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

In una delle mie più recenti scorribande domenicali a Porta Portese, mi è capitato di scorgere a terra ai piedi d’una bancarella di libri stravecchi, spampanata e deturpata da sottolineature con evidenziatori di vari colori, l’antologia Poesia e Prosa di Consonni e Mazza che fu la mia antologia del Ginnasio, mentre quella della Media fu l’altrettanto bellissima Tempi nostri di Piero Nardi che aveva sulla copertina gialla un disegno di Sironi con un cavallo un po’ storto. Prima d’ora non mi era mai capitato di rivederla e quindi ho avvertito una certa emozione: l’ho presa in mano e sono andato diritto alle pagine dedicate al Bacco in Toscana di Francesco Redi e alla A Pippa di Vincenzo Ammirà: le prime due letture, fuori dalle imposizioni scolastiche e, se posso dirlo a distanza di decenni, eversive, dei miei quattordici anni. E subito dopo rintracciare gli articoli sul gioco del calcio di Bruno Roghi (che leggevo sul “Calcio illustrato”) e di Francesco Flora: erano i soli titoli che a distanza di decenni avevo fermi nella memoria.
Se Redi è entrato d’ufficio nei miei studi di homme de lettres, la poesia di Ammirà ho continuato periodicamente a rileggerla e negli anni ad ascoltarla recitata, a memoria, dal mio indimenticabile amico Vincenzo Guarna: ricordo con commozione struggente l’ultima volta, qualche anno fa d’estate, al Teatro del Grillo nello spettacolo estivo annuale che un gruppo di amici organizzavamo, e in quella medesima occasione anch’io mi sono esibito nella recita, naturalmente a memoria, del V canto dell’Inferno dantesco.
L’emozione provata a contatto di quelle pagine consumate, mi indusse a scegliere, come argomento della rubrichetta, Vincenzo Ammirà. Anche perchè dopo quel primo incontro “clandestino”, ai tempi della mia “galera salesiana”, col poeta di Monteleone, altri ne seguirono in virtù dell’acquisto dei due volumi delle opere complete (Tragedie e poesie, Froggio editore, Monteleone 1928, e Poesie dialettali, ivi, 1929) dalla solita donna Delina, abituale fornitrice di quasi tutte le opere di letteratura calabrese che amorosamente conservo nella mia casa di Canale kilometrotre.
A beneficio dei lettori de “La Radice” ricorderò alcuni dati biografici essenziali: Vincenzo Ammirà nacque a Monteleone il 2 dicembre 1821 e vi morì il 6 febbraio 1898.
Vito G. Galati nel suo unico volume Gli scrittori delle Calabrie -limitato alla lettera A- scrive (pp. 137-138) che il nostro autore “fu alla scuola dell’umanista Raffaele Bucciarelli, alla quale appartenne anche Francesco Fiorentino, e, per le sue idee di libertà, soffrì il carcere e l’esilio. Più tardi divenne professore nel Ginnasio di Monteleone, ma poi, a causa del suo lubrico poema La Ceceide, fu esonerato dall’insegnamento, e, fiero sempre visse in non poche strettezze. Di carattere scontroso, incapace di adulazioni, ebbe più nemici che amici, giacchè i suoi concittadini, d’ogni taglio, furono raggiunti dalle sue satire mordaci e colpiti nei loro vizi [...]. Le sue satire sono popolarissime ancora nella Calabria e i suoi versi dialettali si ripetono di generazione in generazione. `E9 certamente uno dei maggiori poeti dialettali calabresi”.
Per la presente circostanza, da Marino, prelevati dalla mia biblioteca calabrese del Canale, mi son fatto mandare i volumi che, riletti dopo tanti anni, confermano l’antica opinione che la produzione dialettale sovrasta, per originalità di ideazione e resa poetica, le cose scritte in lingua, frutto piuttosto di sapienza letteraria acquisita nella frequentazione del mestiere di lettore e di professore.
Perciò ho deciso di trattare solo delle due composizioni -A Pippa e La Ceceide- che hanno assicurato più di tutte le altre la fama presso i lettori contemporanei e quei posteri che hanno curiosità e interesse a leggere i nostri autori calabresi più rappresentativi.
Le diciassette ottave de A Pippa, nel loro tono epico senza enfasi, sono di una bellezza sublime per ideazione tematica e perizia tecnica. Il poemetto è la celebrazione appassionata e malinconica della “cara, fidata cumpagna mia/affummicata pippa di crita” che, come talismano ha accompagnato l’autore in ogni momento della vita fino alla compenetrazione totale “cchiù ti gustava, cchiù mi ’ncarnai” e quindi diventandone testimone di ogni palpito “tu di chist’anima gioia, allegria,/tu sai la storia di la mia vita,/e nuju, nuju megghiu di tia/pe quant’è longa, quant’è pulita” e talvolta persino nume tutelare dell’ispirazione poetica: “tu m’ajutavi quando la musa/facia lu ’gnocculu, trovava scusa”.
Come testimone silenziosa e rassicurante negli appostamenti amorosi e come riusciva a placare turbamenti e insonnie: “t’inchìa a la curma, t’appiccicava,/e accussì subitu m’addormentava” o talvolta lo isolava e tutelava dalle quotidianità “e lu toi fumu, pippa antiquaria,/li mei portava castej’ ’n’aria”, così lo ha seguito nel carcere e nell’esilio: “tu ’ntra lu carciaru pensusu, amaru,/tu pe lu siliu mi secutasti;/si tutti l’autri s’alluntanaru”.
Infine non gli resta che esprimere il voto estremo: “Venendo a moriri dintra la fossa/ti vogghiu accanto di mia curcata/e accussì queti saranno st’ossa // passanu l’anni, chiusu, scordatu,/dormu cuntentu, dormu ’mbiatu”.
Ma alla fine delle fini, nell’immaginata deflagrazione dell’universo grandiosamente rappresentata –“Cadi lu suli, cadi la luna,/li stiji cadinu, penza fracassu,/l’aceji ciangiunu, l’acqua sbajuna,/li munti juntanu, sassu cu sassu/’nsemi si pistanu, e ad una ad una/li cerzi stimpanu; si fa ’nu massu,/sbampa lu focu, tuttu cunzuma”- la certficazione dell’annientamento della desertificazione della bellezza dell’universo è sigillata nel verso finale che non sai se è giocoso o esprime l’amaritudine della fine d’ogni cosa: “Cu’ ’ndeppi, ’ndeppi, cchiù non si fuma”.
La Ceceide è l’altro componimento corresponsabile della fama di Vincenzo Ammirà e le vicende biografiche e editoriali ne sono prove inoppugnabili.
Nel 1854 Ammirà fu incarcerato perchè durante una perquisizione in casa sua fu trovata una copia del Decamerone e il manoscritto della Ceceide, “scritto di canzone contraria al buon costume”. Fu così condannato a due mesi di esilio, alla confisca del volume e del manoscritto, alla multa di venti ducati “a pro del Real Tesoro” e alle spese del giudizio. Così raccontano le cronache.
Un suo discepolo, Eugenio Scalari, lo indica come “l’anima dei crocchi e delle brigate ridarecce monteleonesi” e lo ritrae attore efficace dei suoi versi: “Chiara era la sua voce, che aveva inflessioni corrispondenti alle parole, le quali accompagnava con gesti molto vivaci [...] e il suo aspetto assumeva allora una espressione caratteristica perchè sollevava il dorso che era un po’ arcuato, mentre chinava alquanto la testa dall’ampia fronte sul petto, e vibrava gli occhi penetranti e la lingua sottile da sembrare una scultura di fauno antico” (in Galati, op. cit. pp. 137-138).
Un’ultima informazione sulla protagonista del poemetto, sempre lo Scalfari come fonte, riportata dal Galati (p.138): “Cecia era un’etera venuta di Troppa in Monteleone. Quivi le donne, appartengano al popolo o alla signoria, sono assai belle, e di là era venuta lei che era bellissima ed era vissuta amando e facendosi amare pei suoi vezzi finchè le veneri del corpo si son mantenute vive; da vecchia fu paraninfa d’amore, e moribonda fece, come dice il poeta, il suo testamento, nel quale lasciò, presente un notaio, a questo e a quello, compreso lo stesso notaio e il gran filosofo Galluppi, suo concittadino ed amatore, secondo lei, le varie parti del suo corpo, producendo, con le sue equivoche largizioni, il più schietto sorriso, misto di voluttà e di oscenità”.
La trasmissione del testo è stata orale per un lungo ordine di anni, e solo nel 1975 Antonio Piromalli e Domenico Scafoglio hanno pubblicato il poemetto presso la casa editrice Athena di Napoli. Io, giovinetto, ho avuto la fortuna di ascoltarla dalla voce di Gioivanni Gerace, padre di Lino Fernando e Ionia, appassionato raccoglitore di fotografie e di testi calabresi particolari: me la recitò leggendola su un manoscritto sbrindellato di carta ruvidissima.
Lo stesso Piromalli pubblicò, presso l’editore Brenner di Cosenza, il volumetto Ngagghia e Rivigliade che, a mia conoscenza, completa il corpus delle opere di Ammirà.
La Ceceide è un poemetto in tre parti, composto forse su committenza di un amico di Ammirà, un tal Saverio Costanzo, coll’intento di celebrare l’anniversario della morte di Cecia.
La prima parte è dedicata al testamento: “li pili de lu cunnu glili lasciu/a cui me lu ’mprenau la prima vota” e così via seguitando per tutte le altre parti del corpo.
La seconda parte, secondo me, è la più bella e la più vivace per la compresenza dei personaggi protagonisti del rito della morte e delle lamentazioni funebri, tipicamente popolari, delle prefiche, vero e proprio “coro” da tragedia antica.
“Ch’è stu chiantu? Stu lamentu?/Cui moriu? Chi fu? Chi abbinni?/Viju fimmani, oh spaventu,/chi si scippanu li pinni,/tutti quanti scapitati/cu li ganghi graccinati;/via dicitimi, chi fu?/Cecia, Cecia non ’ncè cchiù”.
E quindi al lamento delle prefiche segue l’inno del poeta a celebrare la bellezza e le imprese della scomparsa: “Di ziteja comparivi/ca venivi na cosazza,/ti addurava la pisciazza/ch’ogni cazzu abbiviscivi,/e na canna si facia,/Cecia amata, Cecia mia”.
Le gesta sono esaltate iperbolicamente secondo gli schemi dell’immaginario popolare sovraeccitato dall’exemplum irripetibile per bellezza e sagacia nel donarsi: “Ndi facisti chiavaturi/cchiù ca fari nda potisti,/li mumenti no perdisti,/ti chiavavi a tutti l’uri,/ogni pisci ti trasia,/Cecia amata, Cecia mia”.
Alla bellezza stupefacente e al piacere cercato e goduto va aggiunta la speciale “arte” di seduzione e di provocare godimento in modo inimitabile che fanno di Cecia sovrana assoluta: “Fusti celabri puttana,/ammirabili arrescisti/a d’ogni arti chi facisti,/fusti mastra arroffijana;/nuja ndeppi comu tia/Cecia amata, Cecia mia”.
La regalità di Cecia sedusse anche il grande filosofo Pasquale Galluppi che non disdegnava di interrompere le meditazioni filosofiche per abbandonarsi agli svaghi liberatori di Cecia: “E Galluppi lu dottuni/puru avisti ammezzu a tanti,/e ti amau, fu pacciu amanti,/ti chiavau ad ogni puntuni/cu la sua filosofia,/Cecia amata, Cecia mia”
Cecia nobilitata in vita, per così dire, dall’ingegno filosofico galluppiano, resterà però nella memoria delle generazioni future perchè un poeta la cantò identificandola colla bellezza suprema e colla grazia generosa del donarsi: “Si moristi, o gran Signora,/si la morti ti fa guerra,/pe dispettu ntra la terra/lu toi nomi sempi dura,/e lu mundu ti ’mbidia,/Cecia amata, Cecia mia”.
Non resisto alla tentazione. Azzardo: anche in questo caso si celebra l’ossimoro “effimero-eterno”. Cioè: la bellezza per quanto memorabile e canonica è effimera ma diventa eterna soltanto per merito della poesia: si pensi ai versi foscoliani: “l’aurea beltade ond’ebbero/ristoro unico a’ mali/le nate a vaneggiar menti mortali”.
Ai miei studenti spiegavo che Antonietta Fagnani Arese sarebbe rimasta personaggio di spicco del bel mondo milanese nelle cronache cittadine compulsate da rari cronisti parrucconi. Invece resta eterna perchè la sua bellezza, esaltata dalla poesia del Foscolo come modello e paradigma identitario, durerà “finchè il Sole/ risplenderà sulle sciagure umane”.
Un altro esempio portavo ai miei studenti: il torero Jgnazio sarebbe rimasto un grande torero solo nella storia della tauromachia. Resta eterno perchè ne ha cantato la vita e la morte Federico Garcia Lorca: “Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto:/Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia:/La grande maturità della tua intelligenza: // La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria./Tarderà molto a nascere, se nasce,/un Andaluso così puro, così ricco d’avventura./Canto la sua eleganza con parole che gemono/y recuerdo una brisa triste por los olivos”.
Nella terza parte, invece che alzata verso il cielo da un coro di angeli, Cecia “si leva verso l’alto, con la vulva fumigante, su una nuvola di membri virili, con un’ascensione che non troviamo in alcuna letteratura europea e che è la parodia delle edificanti ascensioni dello stilnovismo e delle iconografie popolari” (Piromalli).
Lo studioso che ha reso possibile la lettura corretta del testo di Ammirà, infine, sostiene che “Cecia diventa un simbolo e la stessa scenografia -che rovescia il significato del rituale religioso della beatificazione della virtù e della santità- è un mezzo di identificazione con il simbolo liberatorio”.
Ho citato Piromalli per l’autorevolezza e i meriti di editore. Io, per me, resto ammirato della invenzione di Ammirà e della sua officina attrezzata in sommo grado che mi permette, a tanta distanza di anni e di cose, di sentirmi meno distaccato e straniero nella mia terra, perchè la frequentazione delle parole passa attraverso il filtro sonoro e melodioso in un ragionare che sfugge alla lingua d’uso e le emozioni che ricevo dalla letteratura alta portano inesorabilmente al pensiero ricorrente della fine delle cose.


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