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Data: 30/09/2006 - Anno: 12 - Numero: 3 - Pagina: 3 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

DI DUONNU PANTU

Letture: 1208               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

Tra i rigattieri di Porta Portese venditori di libri, solo tre o quattro s’intendono della merce che vendono.
Tra questi c’è Antonio Martino, di Aprigliano, che ho conosciuto grazie a un’amicizia comune e quindi per il fatto immediatamente raccontatomi dell’essere stato abbandonato da una ragazza di Soverato, di cui non mi dirà mai il nome, nemmeno sotto tortura.
Quando mi fermo alla sua bancarella, inevitabilmente mi intrattiene su Duonnu Pantu e stupisce che anch’io conosca a memoria alcuni versi e talune circostanze del poeta seicentesco.
E giusto della Raccolta delle poesie calabre con prefazione di Luigi Gallucci, Castrovillari, Tipografia di F. Patitucci, 1896, mi piace riferire ai lettori de “La Radice”. Libretto che conservo gelosamente insieme a pochi altri di cui varrà la pena dare notizie nelle prossime puntate della “rubrichetta”.
Dal libretto riferirò solo di quella sezione in cui sono riprodotte poesie di Duonnu Pantu per i motivi che rapidamente elencherò di seguito.
In realtà si chiamava Domenico Piro e visse una vita molto breve (1665-1696) e leggendaria che col passar dei secoli divenne mitica: in primis perchè i suoi versi sono di una licenziosità estrema e bellissima, e soprattutto perchè con lui inizia la vera e propria poesia dialettale calabrese.
Infatti fino allora i poeti dialettali calabresi si erano impegnati a tradurre in vernacolo i più grandi poeti latini e italiani: Virgilio, Orazio, Dante, Tasso etc.
“Nessuno, in Calabria, prima di Piro -osserva Giovanni Patari- aveva saputo creare, quanto e come questo prete, una lirica originale” (in Per la Calabria, Guido Mauro editore, Catanzaro, 1934, pag. 128).
Non solo, ma l’uso del dialetto, grazie alla scelta di determinati contenuti e dell’espressione realistica, diventa ideologia in quanto comporta automaticamente “una sorta d’intesa tra individui appartenenti agli stessi elementi etnici [...] una più rapida intesa sul piano dei sentimenti, delle intuizioni pratiche” (A. Piromalli, La Letteratura calabrese, Napoli, Guda, 1977, pag. 98).
Nel caso specifico di Duonnu Pantu, poi, la licenziosità orgiastica può ragionevolmente essere letta come manifestazione veemente di antidogmatismo e di affermazione vitale in difesa della libertà dell’arte e del pensiero.
Detto questo, sospetto che qualche lettore giustamente voglia avere notizie biografiche più ravvicinate e magari qualche citazione di quei versi che di solito si ripetono tra quelle persone appassionate di letteratura calabrese, e di quella scollacciata in particolar modo, che ben si distinguono dalla supponenza dei facili imbonitori arroganti in libera circolazione, per una loro allegra e ironica frequentazione della poesia di alta caratura.
A beneficio dell’affezionato lettore riassumerò, alla maniera praticata per le voci di dizionari biografici e similia, almeno due notizie tratte dalla introduzione del Gallucci.
Si racconta che l’arcivescovo di quel tempo, Gennaro Sanfelice, esasperato dall’insistenza, nonostante la reiterata ammonizione, di scrivere versi licenziosi, lo mise in prigione. Che poi in una udienza accordatagli si commosse e gli permise di liberarlo. Duonnu Pantu, tornato in cella affisse un cartello sulla porta con scritto Si loca.
L’arcivescovo, per tutta risposta, gli intimò severo: “Vi resterete Voi finchè non venga il nuovo inquilino”.
Dalla grata della sua cella vide alcuni ragazzi che giocavano sullo spiazzo, li chiamò e insegnò loro alcuni versi da recitare all’arcivescovo appena fosse apparso in pubblico. Eccoli: “Bonsegnù Bonsegnù futtete l’ossa/ Lu vicariu allu culu e tu alla fissa:/ Vica si nun me cacci de sta fossa/ Iu dicu ch’ai imprenatu la Patissa”.
Dopo di che, ritenutolo incorreggibile, l’arcivescvo lo rimandò ad Aprigliano, chiedendogli, nell’approssimarsi della festa dell’Immacolata, di scrivere una lode alla Beatissima Vergine.
Rileggendo il componimento finito, Duonnu Pantu s’accorge che non aveva dimostrato la verginità della Madonna e non potè contenersi di non chiudere nel modo che segue: “E nzinca chi campau la mamma bella/ De cazzu non provau na Tanticchiella”.
E qui si può anche finire.


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