Data: 30/09/2003 - Anno: 9 - Numero: 3 - Pagina: 12 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Salvatore Mongiardo (Altri articoli dell'autore)
(Salvatore Mongiardo è ormai uno sei nostri, e non soltanto per il Sissizio al quale ci stiamo ritrovando ormai da alcuni anni, ma soprattutto per la vicinanza amicale culturale partecipata anche attraverso i suoi libri, la cui lettura crea un clima sicuramente coinvolgente. Recentemente ci ha regalato una gustosa pagina del suo prossimo libro, che noi qui riportiamo anche perché riguarda per più versi Badolato, Con l’invito, anzi, ai nostri lettori, di comunicarci ogni eventuale notizia sull’argomento, nel caso ne fossero a conoscenza, magari tramite il racconto di un nonno. Noi abbiamo cercato, ma fin qui non abbiamo trovato.)
IL MOTO PERPETUO
Uno dei primi libri che presi per catalogare era un erbario appartenuto a do Peppe Addino, un prete originale, tanto amato dal popolo quanto osteggiato dagli altri preti. L’erbario di don Peppe aveva salvato mezzo paese da morbi e malattie: don Peppe non voleva nulla in cambio e a tutti prescriveva un rimedio infallibile. Non era però riuscito a guarire una donna alla quale aveva ordinato di bere un certo decotto. Quella donna non sapeva cosa fosse un decotto e aveva bollito nella pentola un crocefisso, bevendo poi il Dio cotto. Don Peppe si era messo in testa di risparmiare le suole delle scarpe che consumava andando sempre in giro per raccogliere erbe medicinali. Chiese a mio padre di fargli delle suole in ferro, e mio padre obiettò che era impossibile camminare con suole scivolose e rigide. Don Peppe non sentì ragioni e mio padre dovette forgiargli le due suole. Alla fine don Peppe ammise che non poteva usare le scarpe ferrate perché non riusciva a chinarsi quando doveva raccogliere le erbe. Un altro marchingegno volle da mio padre, ed era un verricello che gli permetteva di tirare da solo sulla spiaggia la piccola spiaggia da pesca con la quale usciva in mare. Alla fine tentò nientedimeno la realizzazione del… moto perpetuo! Si mise d’accordo con il Barone Gallelli di Badolato, convinto anche lui che era possibile invertire il movimento in discesa dell’acqua e creare una macchina che producesse energia all’infinito. Nel greto del fiume Gallipari approntarono la centrale con le macchine e gli ingranaggi che avevano fatto fondere a Taranto. Mio padre dovette passare parecchio tempo a mettere in opera i marchingegni, e quando l’acqua entrò negli ingranaggi, l’effetto fu così forte che tutta la centrale saltò in aria. Don Peppe dovette vendere la casa per pagare le fonderie di Taranto e, forse pressato da quelle angustie finanziarie, bisticciò con gli altri preti di Sant’Andrea per la divisione della congrua, la cassa del clero dove affluivano le offerte dei fedeli per messe, battesimi e funerali. Don Peppe afferrò il grosso piede in legno della croce professionale, smontato e appoggiato alla parte della sacrestia, per picchiare i confratelli. Da allora rimase il detto menare con il piede della croce per dire picchiare forte. Fu mandato in punizione a Nardo di Pace, un centro montano piccolo e poverissimo delle Serre. Lì trovò la morte nel portare il viatico ad una morente che abitava fuori paese, a Ragonà, e per far prima prese una scorciatoia pericolosa. Al ragazzo che gli faceva da guida e lo sconsigliava di prendere quel malo passo, don Peppe disse: “Se ci passano le capre ci passo pure io”. Non fu così. Precipitò e morì in fondo al dirupo. |