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Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/04/2019 - Anno: 25 - Numero: 1 - Pagina: 17 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

IL TEMPO DELL’UOMO

Letture: 252               AUTORE: Vittorio Bonacci (Altri articoli dell'autore)        

Un certo modo di porre il problema del “tempo libero” ripete, sostanzialmente, quell’antinomia
che Charles Percy Snow nell’opera Le due culture e la rivoluzione scientifica del 1959 ha chiamato
appunto “Le due culture”, (espressione ormai diventata classica): la cultura umanistica e la cultura
tecnico-scientifica. È il modello dicotomico tra otium et negotium, tra artes liberales, legate alla
fruizione e opera fabrilia, connesse con la produzione.
In questo schema vengono sistemati, secondo una concezione manichea del tempo e dello
spirito, <il tempo libero> e il <tempo del lavoro>. La proposizione del problema in questi termini
è una conseguenza della “cattiva coscienza del tempo libero”.
Con acuto intuito questa “cattiva coscienza” è stata descritta da Friedrich Nietzsche in una
lucida pagina della Gaia scienza (1882) che vale la pena rileggere: “Già ci si vergogna di
riposare… Si pensa con l’orologio in mano, come si mangia a mezzogiorno con gli occhi sul
bollettino della Borsa, si vive come se si temesse continuamente di perdere un affare… La caccia
al guadagno costringe continuamente l’intelligenza a spremersi fino all’esaurimento… Adesso la
vera virtù consiste nel far qualche cosa in minor tempo che un altro. E dunque son ben poche le
ore in cui è consentita la sincerità. Ma in queste ore poi si è così stanchi che si vorrebbe non solo
distendersi, bensì buttarsi giù come un ciocco… Si potrebbe presto arrivare al punto di non cedere
al gusto della vita contemplativa (cioè al passeggiare con i propri pensieri e con gli amici) senza
disprezzarsi e farsene un rimorso”.
Queste considerazioni del filosofo tedesco sono ispirate a quel clima austero e puritano della
<Età vittoriana>, quando la serietà della vita era fatta consistere nell’esaltazione del lavoro fine a
se stesso.
Successivamente, con l’avvento sconsacrante della nuova scienza della natura, la concezione
esaltata e teologica del lavoro andò via via perdendo sempre più la sua attrattiva in un contesto
contraddistinto dall’eclisse del sacro. L’uomo contemporaneo, testimone e protagonista del
trionfo della scienza e della tecnica, si è tratto fuori dall’orizzonte del sacro. Di conseguenza
quei <valori>, una volta sacrali, hanno subito un processo di trasformazione, si sono cioè
“secolarizzati”, conservando tuttavia la matrice originaria. Oggi quei “valori” hanno assunto una
nuova formulazione secondo i canoni del Taylorismo e sono alla base della società consumistica.
Recentemente Benedetto XVI, in una udienza pubblica, ha ripreso questa tematica prendendo
spunto dal pensiero di San Bernardo di Chiaravalle.
Nel nostro tempo, partendo da quel modello dualistico, si è generato il convincimento di
dover contrapporre un correttivo gratificante e compensativo al tempo frenetico e parossistico del
lavoro. Ed ecco “il tempo libero” in antitesi al “tempo impegnato” e come istanza di recupero della
dimensione umana che il lavoro opprime (?).
Sennonché questa esigenza di recupero oggi viene intessuta nell’ordito delle regole consumistiche
della società contemporanea. Essa prende corpo nelle città in cui, con le ferie degli stabilimenti
industriali, mezza popolazione si riversa sui monti e al mare e le vacanze vengono organizzate dai
<tour operator> che, con scelte collettive e livellate, scaricano i gitanti nei ristoranti in cui ci sono
tavoli già pronti con menù a prezzo fisso, mentre la radio gracida a volume assordante, oppure la
gente si isola con l’Ipod incollato nelle orecchie.
In definitiva l’uomo di oggi, strumento inconsapevole di una macchina elefantiaca, anche
durante il cosiddetto “tempo libero” si ritrova ancora “uomo-in-serie”, “uomo-numero”, ben lontano
dalla originalità della sua capacità di sentire, di giudicare, di volere, restando invece avulso da ogni
partecipazione esperienziale del mondo vario che lo circonda. Come dice Gűnther Anders, in L’uomo
è antiquato (1963), “Gli uomini restano ancora gli eremiti di massa”. Non a caso ogni anno, a fine
agosto, i mass media discettano del “malessere delle vacanze”.
A questo punto sembra logico concludere che “il tempo libero” è, anch’esso, alienante e
spersonalizzante. Ci troviamo così di fronte ad una duplice alienazione: quella del “tempo
impegnato” accanto a quella del “tempo libero”.
Alla base di questa dicotomia c’è un equivoco di fondo che scaturisce dalla visione dualistica e
manichea sopra denunciata che consiste nella scissione dell’uomo e del suo tempo.
Per cercare di superare l’equivoco e comporre l’antinomia occorre preliminarmente dare una
risposta a questa domanda: tempo, tempo di chi?
Certamente tempo dell’uomo. La vita dell’uomo, il suo pensiero, il suo lavoro, i suoi hobbies
sono attività temporalizzanti in quanto l’uomo, a differenza della scimmia, con il suo “fare” è in
grado di conservare e tramandare il passato, progettare il futuro, operare delle scelte nella libertà.
“Tempo” e “libertà”. Sono questi i poli che devono guidare l’uomo, segnando il suo itinerario
di vita: saper cercare e ritrovare le radici della propria umanità, senza smarrirsi nell’anonimato, senza
perdere l’originalità e l’identità della “persona”, recuperando in ogni momento, in ogni “fare” quei
valori di humanitas insiti nell’essere e nella vita. Che senso potrebbero avere per l’uomo l’autonomia
e la libertà se non fosse responsabile del suo “fare”; un “fare” in cui il tempo del lavoro non alieni
da sé il tempo libero e la fatica si coniughi col riposo, entrambi necessari per vivere e per pensare?
Mario Manno, in Ricerche (1968), osserva: «Se l’uomo non ha saputo cogliere nel suo lavoro la
qualità dell’autentico, non la coglierà certamente nel cosiddetto “tempo libero”».
Questa cifra valoriale l’aveva ben intuita secoli fa, San Benedetto da Norcia, padre del
monachesimo occidentale, che racchiuse questa felice intuizione nel suo famoso motto “Ora et
labora”.
Uscendo, allora, dall’equivoco possiamo dire, riaffermando la concezione unitaria, che l’uomo
è veramente uomo in quanto lavora e in quanto trascende la natura e trasforma il mondo con il
pensiero e il “fare”. In questo quadro valoriale, così come abbiamo una persona unitaria, avremo
anche un tempo unitario e totale della persona, avremo cioè non un “tempo libero” accanto ad un
“tempo impegnato”, semmai due aspetti, due dimensioni di un unico tempo: “il tempo dell’uomo”.
Soltanto in questa prospettiva si aprono, per un numero sempre più grande di individui, possibilità
nuove di ritrovare se stessi e di realizzare la propria umanità all’interno del lavoro, evitando così di
rinviare inutilmente tale possibilità al momento mistificato della fruizione compensativa e alternativa
o, comunque, ad attività da ricondurre alla concezione dicotomica dell’uomo e del suo tempo.
Assicurata questa esigenza antropologica, sarà dato anche agli uomini del terzo millennio
sostare e ripetere ciò che Socrate diceva ai suoi discepoli: “Lasciate che ci sdraiamo all’ombra di
questo albero e ragioniamo”. O quello che Emanuele Kant, riecheggiando la sapienza socratica,
faceva dire al suo personaggio alla fine dei Sogni di un visionario (1766): “Lasciate che usciamo
in giardino e lavoriamo”.


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