Data: 31/12/2019 - Anno: 25 - Numero: 3 - Pagina: 46 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
LA “LITTORINA” TRA STORIA E RICORDI |
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AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)
Correva l’anno 1950 ed io frequentavo la prima classe della Scuola Media con tanto desiderio di imparare cose nuove e di conoscere nuovi luoghi. Trascorrevo molto del mio tempo a giocare con i miei fratelli e compagni di scuola, ma ero letteralmente affascinata dagli aneddoti, un po’ romanzati, che mio nonno materno soleva raccontare nelle serate d’inverno a noi nipotini: erano i ricordi della sua vita di ferroviere. Uno in particolare, più volte raccontato a richiesta dei più piccini, ci faceva esplodere di gioia: quello che ricordava il passaggio, alla stazione di Pizzo Calabro, del primo treno a vapore che sbuffava e sussultava per poi partire tra gli applausi e la meraviglia della popolazione presente all’evento. Anche io sarei salita sul treno che da Pizzo mi avrebbe portato a Vibo Valentia per frequentare le Scuole Superiori, ma solo dopo qualche anno… ed io non volevo, non potevo attendere tanto! Perciò pregai i miei genitori che, dopo promesse e compromessi vari, mi permisero di fare quel tanto atteso viaggio. In quegli anni, sui binari della ferrovia Calabro-Lucana transitava ancora una piccola automotrice a quattro ruote di memoria coloniale, senza locomotiva e senza carrozze, che tutti chiamavano “littorina”, ma che noi ragazzini chiamavamo “trenino” perché, vista transitare sui binari, somigliava a un trenino-giocattolo; ma anche per distinguerlo dal treno ben più lungo delle Ferrovie dello Stato, un vero treno fornito di locomotore e di varie carrozze che seguiva altri e più lunghi percorsi verso le città del Nord e del Sud d’Italia. E giunse il giorno tanto atteso che doveva rimanere nei miei ricordi come la più fantastica esperienza della mia vita di bambina: il giorno in cui mi fu permesso di provare l’ebbrezza del viaggio (di soli quaranta minuti!) sul “trenino” dei miei sogni! Era quello il tempo in cui ci si accontentava di quel poco di essenziale che si poteva ottenere ed in cui ci si entusiasmava anche per un ninnolo avuto in dono! Nel tratto a piedi, in salita per giungere alla stazione ferroviaria, io correvo con tutte le mie forze, mentre mia sorella, più grande di me di due anni, non capiva il mio entusiasmo e la mia impazienza, forse perché già da un anno faceva ogni giorno quel percorso per recarsi a scuola a Vibo. Giunta in cima alla salita, vidi il piazzale della piccola stazione di Pizzo gremito di persone che attendevano la littorina per raggiungere il posto di lavoro; erano operai, impiegati, studenti ed anche contadini che portavano con sé alcuni prodotti dell’orto da vendere ai mercatini della zona. Dalla porta aperta dell’Ufficio della stazione si sentivano i trilli del telefono a manovella che annunciavano l’arrivo del convoglio e dopo pochi minuti ecco sbucare lentamente da una stretta galleria il tanto atteso treno che fischiava in maniera sonora ed avanzava con andatura tranquilla. Il capostazione, con la paletta alzata lo accolse e, dopo una breve sosta per consentire ai passeggeri di salire, venne chiusa l’unica porta sulla fiancata del convoglio che ripartì con qualche sussulto. Non so come mi trovai seduta accanto al finestrino, nell’unico comparto passeggeri, dove vi erano due file di sedili di legno posti dietro la cabina di guida del macchinista. E mentre la littorina si perdeva tra verdi aranceti ed oliveti, io rimasi in silenzio intenta ad osservare i viaggiatori, alcuni immersi nei loro pensieri, altri che discorrevano tra loro, mentre il capotreno, con la sua divisa scura, controllando i biglietti, chiacchierava con alcuni viaggiatori, cercando di tenersi in bilico per evitare gli scossoni della corsa. Da lontano, un distinto signore mi fece un cenno di saluto con la mano: era don Gigi, un vicino di casa, piccolo proprietario terriero che viaggiava su quella littorina per recarsi a Bivona per motivi di lavoro ed ogni mattina il trillo stridulo della sua sveglia non faceva saltare fuori da letto solo lui, ma anche noi ragazzini che dormivano al piano di sotto e dovevamo recarci a scuola. Risposi al saluto con un timido cenno della mano, poi, volgendo lo sguardo fuori, fui pervasa da un improvviso moto di paura: per un attimo ebbi la sensazione di essere sospesa in aria, poiché stavamo attraversando un ponte a tre arcate che da lì a qualche mese sarebbe diventato tristemente famoso. Quando alzai gli occhi m’immersi nella meravigliosa vista del mare Tirreno ed anche se era lo stesso panorama che potevo ammirare da casa mia, dall’alto tutto mi sembrò magnifico, ed io rimasi incantata nel guardare l’azzurro cangiante del mare, la linea dell’orizzonte interrotta dalla sagoma dello Stromboli, la vasta insenatura del golfo di Sant’Eufemia… Poi, con la fantasia, giunsi fino a Capo Vaticano, alla Costa Viola ed immaginai anche la mitica Fata Morgana! Dal lato opposto, il finestrino mi faceva intravedere un costone al di là del quale, poi seppi, si stendeva la costa ionica che avevo visto solo sulla carta geografica della mia scuola. Giunti alla stazione di Vibo la littorina si svuotò dei passeggeri e rimase immobile sulle rotaie ed io, avviandomi verso l’uscita mi soffermai a guardare da lontano quel convoglio vuoto e ricordai ciò che avevo sentito dire da mio nonno, e cioè che quel trabiccoletto viaggiava in un solo senso di marcia, e che quindi per tornare indietro bisognava farlo girare su un’apposita piattaforma, cosa che avvenne con una forte spinta di un solo operaio che l’ha fatta roteare lentamente riportandolo alla posizione di partenza. Quella per me fu l’unica volta che viaggiai sulla littorina, il trenino dei miei sogni, poiché dopo alcuni mesi la Calabro-Lucana istituì delle corse su comodi autobus con fermate anche in città, ad uso soprattutto di giovani studenti. Comunque molti altri passeggeri, tra cui don Gigi, continuarono a servirsi della littorina per recarsi sul posto di lavoro. Un brutto giorno, esattamente il 17 novembre 1951, avvenne un terribile disastro ferroviario, a seguito del crollo di una delle tre arcate del ponte Ciliberto, tra le stazioni di Pizzo e Vibo Marina, in località “Timpa Janca”, che da quel giorno venne chiamata “Timpa Rossa”: la littorina, col suo carico umano, fece un precipitoso volo di venti metri, incastrandosi poi tra le due sponde del vallone sottostante. Il triste bilancio fu di ben undici morti e di oltre quaranta feriti più o meno gravi, che a fatica vennero estratti dal raccapricciante groviglio. Il Messaggero ed Il Tempo, nonché il Giornale Radio di allora, riportarono l’accaduto sottolineando la solerzia e la disponibilità dei medici delle città vicine e dei proprietari delle automobili che si offrirono per le opere di soccorso e di trasporto dei feriti negli ospedali della zona. Don Gigi quel giorno non c’era sulla “littorina della morte”, perché la sua sveglia, inceppandosi miracolosamente, gli impedì di intraprendere quel viaggio che sarebbe stato probabilmente l’ultimo e comunque il più tragico della sua vita. Anche noi, i miei fratelli ed io, quella mattina non ci svegliammo in tempo per recarci a scuola, sempre per via della famosa sveglia e, mentre si consumava quell’immane disgrazia, ignari giocavamo in casa, contenti della vacanza inaspettata. |