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DALL’1 GENNAIO AL 30 APRILE 2019
Autore:Mario Ruggero Gallelli     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2019 - Anno: 25 - Numero: 3 - Pagina: 46 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

LA “LITTORINA” TRA STORIA E RICORDI

Letture: 794               AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)        

Correva l’anno 1950 ed io frequentavo la prima classe della Scuola Media con tanto desiderio
di imparare cose nuove e di conoscere nuovi luoghi. Trascorrevo molto del mio tempo a giocare
con i miei fratelli e compagni di scuola, ma ero letteralmente affascinata dagli aneddoti, un po’
romanzati, che mio nonno materno soleva raccontare nelle serate d’inverno a noi nipotini: erano
i ricordi della sua vita di ferroviere. Uno in particolare, più volte raccontato a richiesta dei più
piccini, ci faceva esplodere di gioia: quello che ricordava il passaggio, alla stazione di Pizzo
Calabro, del primo treno a vapore che sbuffava e sussultava per poi partire tra gli applausi e la
meraviglia della popolazione presente all’evento.
Anche io sarei salita sul treno che da Pizzo mi avrebbe portato a Vibo Valentia per frequentare
le Scuole Superiori, ma solo dopo qualche anno… ed io non volevo, non potevo attendere tanto!
Perciò pregai i miei genitori che, dopo promesse e compromessi vari, mi permisero di fare quel
tanto atteso viaggio.
In quegli anni, sui binari della ferrovia Calabro-Lucana transitava ancora una piccola automotrice
a quattro ruote di memoria coloniale, senza locomotiva e senza carrozze, che tutti
chiamavano “littorina”, ma che noi ragazzini chiamavamo “trenino” perché, vista transitare sui
binari, somigliava a un trenino-giocattolo; ma anche per distinguerlo dal treno ben più lungo delle
Ferrovie dello Stato, un vero treno fornito di locomotore e di varie carrozze che seguiva altri e
più lunghi percorsi verso le città del Nord e del Sud d’Italia.
E giunse il giorno tanto atteso che doveva rimanere nei miei ricordi come la più fantastica
esperienza della mia vita di bambina: il giorno in cui mi fu permesso di provare l’ebbrezza del
viaggio (di soli quaranta minuti!) sul “trenino” dei miei sogni! Era quello il tempo in cui ci si
accontentava di quel poco di essenziale che si poteva ottenere ed in cui ci si entusiasmava anche
per un ninnolo avuto in dono!
Nel tratto a piedi, in salita per giungere alla stazione ferroviaria, io correvo con tutte le mie
forze, mentre mia sorella, più grande di me di due anni, non capiva il mio entusiasmo e la mia impazienza,
forse perché già da un anno faceva ogni giorno quel percorso per recarsi a scuola a Vibo.
Giunta in cima alla salita, vidi il piazzale della piccola stazione di Pizzo gremito di persone
che attendevano la littorina per raggiungere il posto di lavoro; erano operai, impiegati, studenti ed
anche contadini che portavano con sé alcuni prodotti dell’orto da vendere ai mercatini della zona.
Dalla porta aperta dell’Ufficio della stazione si sentivano i trilli del telefono a manovella che
annunciavano l’arrivo del convoglio e dopo pochi minuti ecco sbucare lentamente da una stretta
galleria il tanto atteso treno che fischiava in maniera sonora ed avanzava con andatura tranquilla.
Il capostazione, con la paletta alzata lo accolse e, dopo una breve sosta per consentire ai passeggeri
di salire, venne chiusa l’unica porta sulla fiancata del convoglio che ripartì con qualche
sussulto. Non so come mi trovai seduta accanto al finestrino, nell’unico comparto passeggeri,
dove vi erano due file di sedili di legno posti dietro la cabina di guida del macchinista. E mentre
la littorina si perdeva tra verdi aranceti ed oliveti, io rimasi in silenzio intenta ad osservare i
viaggiatori, alcuni immersi nei loro pensieri, altri che discorrevano tra loro, mentre il capotreno,
con la sua divisa scura, controllando i biglietti, chiacchierava con alcuni viaggiatori, cercando di
tenersi in bilico per evitare gli scossoni della corsa.
Da lontano, un distinto signore mi fece un cenno di saluto con la mano: era don Gigi, un vicino
di casa, piccolo proprietario terriero che viaggiava su quella littorina per recarsi a Bivona
per motivi di lavoro ed ogni mattina il trillo stridulo della sua sveglia non faceva saltare fuori da letto solo lui, ma anche
noi ragazzini che dormivano
al piano di sotto
e dovevamo recarci a
scuola. Risposi al saluto
con un timido cenno
della mano, poi, volgendo
lo sguardo fuori, fui
pervasa da un improvviso
moto di paura: per
un attimo ebbi la sensazione
di essere sospesa
in aria, poiché stavamo attraversando un ponte a tre arcate che da lì a qualche mese sarebbe
diventato tristemente famoso. Quando alzai gli occhi m’immersi nella meravigliosa vista del
mare Tirreno ed anche se era lo stesso panorama che potevo ammirare da casa mia, dall’alto
tutto mi sembrò magnifico, ed io rimasi incantata nel guardare l’azzurro cangiante del mare,
la linea dell’orizzonte interrotta dalla sagoma dello Stromboli, la vasta insenatura del golfo di
Sant’Eufemia… Poi, con la fantasia, giunsi fino a Capo Vaticano, alla Costa Viola ed immaginai
anche la mitica Fata Morgana! Dal lato opposto, il finestrino mi faceva intravedere un
costone al di là del quale, poi seppi, si stendeva la costa ionica che avevo visto solo sulla carta
geografica della mia scuola.
Giunti alla stazione di Vibo la littorina si svuotò dei passeggeri e rimase immobile sulle rotaie
ed io, avviandomi verso l’uscita mi soffermai a guardare da lontano quel convoglio vuoto e ricordai
ciò che avevo sentito dire da mio nonno, e cioè che quel trabiccoletto viaggiava in un solo
senso di marcia, e che quindi per tornare indietro bisognava farlo girare su un’apposita piattaforma,
cosa che avvenne con una forte spinta di un solo operaio che l’ha fatta roteare lentamente
riportandolo alla posizione di partenza.
Quella per me fu l’unica volta che viaggiai sulla littorina, il trenino dei miei sogni, poiché
dopo alcuni mesi la Calabro-Lucana istituì delle corse su comodi autobus con fermate anche in
città, ad uso soprattutto di giovani studenti. Comunque molti altri passeggeri, tra cui don Gigi,
continuarono a servirsi della littorina per recarsi sul posto di lavoro.
Un brutto giorno, esattamente il 17 novembre 1951, avvenne un terribile disastro ferroviario,
a seguito del crollo di una delle tre arcate del ponte Ciliberto, tra le stazioni di Pizzo e Vibo Marina,
in località “Timpa Janca”, che da quel giorno venne chiamata “Timpa Rossa”: la littorina, col
suo carico umano, fece un precipitoso volo di venti metri, incastrandosi poi tra le due sponde del
vallone sottostante. Il triste bilancio fu di ben undici morti e di oltre quaranta feriti più o meno
gravi, che a fatica vennero estratti dal raccapricciante groviglio.
Il Messaggero ed Il Tempo, nonché il Giornale Radio di allora, riportarono l’accaduto sottolineando
la solerzia e la disponibilità dei medici delle città vicine e dei proprietari delle automobili
che si offrirono per le opere di soccorso e di trasporto dei feriti negli ospedali della zona.
Don Gigi quel giorno non c’era sulla “littorina della morte”, perché la sua sveglia, inceppandosi
miracolosamente, gli impedì di intraprendere quel viaggio che sarebbe stato probabilmente
l’ultimo e comunque il più tragico della sua vita.
Anche noi, i miei fratelli ed io, quella mattina non ci svegliammo in tempo per recarci a scuola,
sempre per via della famosa sveglia e, mentre si consumava quell’immane disgrazia, ignari
giocavamo in casa, contenti della vacanza inaspettata.


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