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U CATÒJU ’E TURI
Autore:Vincenzo Squillacioti     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/09/2007 - Anno: 13 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

L’ANELLO

Letture: 990               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

La pioggia era caduta abbondante, come suole ogni anno nel mese di ottobre in questo sud
quasi sempre inondato di sole. E le fiumare in piena e minacciose, come ormai da millenni.
E come da sempre la paura della gente, dei contadini, soprattutto, che temevano l’inondazione
dei campi e quindi la vanificazione del loro pesante lavoro. I più vecchi ricordavano ancora
il disastro provocato dalle alluvioni del 1855, e ne parlavano ai giovani come per esorcizzarne
una riedizione. I più pensavano alla marina dove spesso i campi si trasformavano in
melmose paludi e le fiumare rombando straripavano ritornando agli antichi loro confini. Il
torrente Ponzo, in particolare, era noto per i danni che ogni anno provocava alle terre che lambiva:
il pericolo maggiore era alla mbarràta dove usciva rovinosamente dal suo letto a causa
dell’improvviso angolo retto ch’era costretto ad assumere. E così fu anche nell’autunno di
quel 1925. La violenza delle acque fu tale da scardinare i piloni di granito sui quali poggiava
il ponte della strada ferrata all’altezza della Punta. Nessuno s’accorse; nessun provvedimento
fu preso… e il treno delle 21,15 per Reggio Calabria precipitò nella fiumara sottostante. Il
primo allarme nella notte, e l’indomani, alla luce di un pallido sole, apparve la catastrofe nella
sua luttuosa abbondanza: sette morti. Altri nove li restituirà il mare nei giorni successivi.
*****
La notizia del disastro ferroviario alla Punta si sparse in un baleno, nonostante la scarsezza
dei mezzi di comunicazione dell’epoca. Arrivarono i soccorsi e le Autorità per le incombenze
di rito. A piedi e in bicicletta arrivò gente anche dai paesi vicini. Qualcuno scattò pure
fotografie. Ne scrissero i giornali.
Mastro Vincenzino, fabbro ferraio di Sant’Andrea, uomo di sani principi e desideroso di
conoscenza, pensò anche lui di arrivare alla vicina marina di Badolato per rendersi direttamente
conto del disastro. E vi arrivò, difatti, nel pomeriggio, in compagnia di mastro
Raffaele, anche lui andreolese, stagnino, alla continua ricerca di chiodi, di pezzi di ferro, di
lamiere per la sua modesta bottega, motivo per cui portava sempre attaccate alla cintola delle
pesanti tenaglie.
I due arrivarono alla fiumara del disastro quando ormai c’erano pochi curiosi a dare tristi
sguardi alle carrozze ferroviarie rovesciate, testimoni della tragedia. I morti erano già stati
portati via, alla chiesetta di San Leonardo, sul mare, nei pressi della villa dei baroni Paparo.
Il fabbro e lo stagnino decisero allora di andare a visitare le sette vittime nella loro provvisoria
dimora: erano lì, contusi e tumefatti, tutti maschi, in povere bare disposte dalle Autorità
competenti. Lo stagnino s’avvide che uno dei sette, il più giovane, sembrava, aveva al dito un
vistoso anello d’oro. Ebbe all’istante il desiderio di farlo suo quell’anello, e ne confidò l’intenzione
all’amico che cercò di dissuaderlo, ma quello, approfittando che in quel momento
non c’erano occhi indiscreti, s’avvicinò alla bara e tentò di sfilare l’anello dal dito. Non vi
riuscì, tanto il dito era gonfio. Senza esitazione prese dalla cintola le tenaglie… e tagliò a fatica
il dito di quel giovane cadavere. E fuori di corsa, il dito nella sterpaglia, l’anello in tasca,
la mano pulita nei pantaloni e via in bicicletta per fare rientro in paese.
Nessuno, in seguito, parlò di quel dito scomparso. Forse nessuno se ne avvide, o si trovò
una qualche plausibile causa. Il nostro stagnino, però, quel dito lo vedeva in sogno, ogni notte, e
vedeva quel giovane morto che con ghigno spaventoso tentava di strappare la mano alla morsa
delle pesanti tenaglie. Così ogni notte. Un martirio, degna punizione per un così terrificante gesto.
Una notte in cui il ricorrente sogno gli provocò più paura del solito, si recò di corsa alla
casetta di campagna dove nascose l’anello maledetto in fondo a un pozzo secco da anni, per
non averlo più in casa, per non vederlo mai più. Nella giornata fece pure l’elemosina, nella
speranza di placare così la rabbia del giovine defraudato e ferocemente mutilato. Ma non fu
così. A notte quello apparve puntualmente, con ghigno ancor più spaventoso del solito. Il
disgraziato stagnino non poté far di meglio che saltare dal letto e andare a rifugiarsi nella sua
casetta in campagna, presentendo che si sarebbe colà liberato del fantasma ghignoso dal dito
mozzo. Si liberò, difatti definitivamente: l’indomani fu trovato con un cappio al collo, penzoloni
sul pozzo che nascondeva agli occhi di tutti il suo anello maledetto.



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