| Data: 30/09/2007 - Anno: 13 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI  Letture: 1502                 
 AUTORE: Vincenzo Squillacioti  (Altri articoli dell'autore) 
        
    La pioggia era caduta abbondante, come suole ogni anno nel mese di ottobre in questo sudquasi sempre inondato di sole. E le fiumare in piena e minacciose, come ormai da millenni.
 E come da sempre la paura della gente, dei contadini, soprattutto, che temevano linondazione
 dei campi e quindi la vanificazione del loro pesante lavoro. I pi vecchi ricordavano ancora
 il disastro provocato dalle alluvioni del 1855, e ne parlavano ai giovani come per esorcizzarne
 una riedizione. I pi pensavano alla marina dove spesso i campi si trasformavano in
 melmose paludi e le fiumare rombando straripavano ritornando agli antichi loro confini. Il
 torrente Ponzo, in particolare, era noto per i danni che ogni anno provocava alle terre che lambiva:
 il pericolo maggiore era alla mbarrta dove usciva rovinosamente dal suo letto a causa
 dellimprovviso angolo retto chera costretto ad assumere. E cos fu anche nellautunno di
 quel 1925. La violenza delle acque fu tale da scardinare i piloni di granito sui quali poggiava
 il ponte della strada ferrata allaltezza della Punta. Nessuno saccorse; nessun provvedimento
 fu preso e il treno delle 21,15 per Reggio Calabria precipit nella fiumara sottostante. Il
 primo allarme nella notte, e lindomani, alla luce di un pallido sole, apparve la catastrofe nella
 sua luttuosa abbondanza: sette morti. Altri nove li restituir il mare nei giorni successivi.
 *****
 La notizia del disastro ferroviario alla Punta si sparse in un baleno, nonostante la scarsezza
 dei mezzi di comunicazione dellepoca. Arrivarono i soccorsi e le Autorit per le incombenze
 di rito. A piedi e in bicicletta arriv gente anche dai paesi vicini. Qualcuno scatt pure
 fotografie. Ne scrissero i giornali.
 Mastro Vincenzino, fabbro ferraio di SantAndrea, uomo di sani principi e desideroso di
 conoscenza, pens anche lui di arrivare alla vicina marina di Badolato per rendersi direttamente
 conto del disastro. E vi arriv, difatti, nel pomeriggio, in compagnia di mastro
 Raffaele, anche lui andreolese, stagnino, alla continua ricerca di chiodi, di pezzi di ferro, di
 lamiere per la sua modesta bottega, motivo per cui portava sempre attaccate alla cintola delle
 pesanti tenaglie.
 I due arrivarono alla fiumara del disastro quando ormai cerano pochi curiosi a dare tristi
 sguardi alle carrozze ferroviarie rovesciate, testimoni della tragedia. I morti erano gi stati
 portati via, alla chiesetta di San Leonardo, sul mare, nei pressi della villa dei baroni Paparo.
 Il fabbro e lo stagnino decisero allora di andare a visitare le sette vittime nella loro provvisoria
 dimora: erano l, contusi e tumefatti, tutti maschi, in povere bare disposte dalle Autorit
 competenti. Lo stagnino savvide che uno dei sette, il pi giovane, sembrava, aveva al dito un
 vistoso anello doro. Ebbe allistante il desiderio di farlo suo quellanello, e ne confid lintenzione
 allamico che cerc di dissuaderlo, ma quello, approfittando che in quel momento
 non cerano occhi indiscreti, savvicin alla bara e tent di sfilare lanello dal dito. Non vi
 riusc, tanto il dito era gonfio. Senza esitazione prese dalla cintola le tenaglie e tagli a fatica
 il dito di quel giovane cadavere. E fuori di corsa, il dito nella sterpaglia, lanello in tasca,
 la mano pulita nei pantaloni e via in bicicletta per fare rientro in paese.
 Nessuno, in seguito, parl di quel dito scomparso. Forse nessuno se ne avvide, o si trov
 una qualche plausibile causa. Il nostro stagnino, per, quel dito lo vedeva in sogno, ogni notte, e
 vedeva quel giovane morto che con ghigno spaventoso tentava di strappare la mano alla morsa
 delle pesanti tenaglie. Cos ogni notte. Un martirio, degna punizione per un cos terrificante gesto.
 Una notte in cui il ricorrente sogno gli provoc pi paura del solito, si rec di corsa alla
 casetta di campagna dove nascose lanello maledetto in fondo a un pozzo secco da anni, per
 non averlo pi in casa, per non vederlo mai pi. Nella giornata fece pure lelemosina, nella
 speranza di placare cos la rabbia del giovine defraudato e ferocemente mutilato. Ma non fu
 cos. A notte quello apparve puntualmente, con ghigno ancor pi spaventoso del solito. Il
 disgraziato stagnino non pot far di meglio che saltare dal letto e andare a rifugiarsi nella sua
 casetta in campagna, presentendo che si sarebbe col liberato del fantasma ghignoso dal dito
 mozzo. Si liber, difatti definitivamente: lindomani fu trovato con un cappio al collo, penzoloni
 sul pozzo che nascondeva agli occhi di tutti il suo anello maledetto.
 
 
 
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