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Data: 31/03/2007 - Anno: 13 - Numero: 1 - Pagina: 12 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

La Calabria tra rivolta e protesta nella prima metà dell'800

Letture: 1038               AUTORE: Caterina Guarna (Altri articoli dell'autore)        

La Calabria tra rivolta e protesta nella prima metà dell'800
La Calabria nei primi decenni del 1800, e anche per molto tempo dopo, si presenta come una terra primitiva e selvaggia, in uno stato di arretratezza e di immobilità ancora maggiore, se possibile, delle altre regioni del regno borbonico. Ecco come il Nitti la descriveva :
��La malaria da una parte e i cattivi ordinamenti inducevano gli abitanti a vivere uniti, in una unione necessaria e forse per questo più ingrata. Le case si ragguppavano miseramente tra loro e non v'erano, d'ordinario, che il castello del barone, la chiesa e il convento che avessero un'aria meno misera� Impedite le comunicazioni o limitate ai paesi vicini, la vita trascorreva sempre allo stesso modo: quando non era turbata da cataclismi violenti, come le guerre. Assoluto il potere del feudatario e peggiore di esso quello di coloro che lo rappresentavano, non era possibile al popolo nessuna salute all�infuori della rivolta individuale. La religione, quando non era una superstizione, aveva il carattere dei luoghi: una religione dura e paurosa, quasi crudele, mitigata solo dall�intervento del protettore, un santo per lo pi� patrono di un male grave e pronto pi� a punire che ad amare, pi� a vendicare che a perdonare�(1)
Ed ecco come ne parla un testimone diretto come il De Sanctis:
�In Calabria si sente qualcosa di un terreno ancora feudale. Vi sono stato io fuggendo un mandato di arresto e giungendovi dissi tra me: �Il feudalesimo � ancora qui in vigore. Il contadino guarda con sommissione il barone e lo rispetta. Il capo � rispettato con cieca sommissione dai suoi seguaci��.(2)
Si era dunque ancora in pieno feudalesimo: netta la divisione tra le classi: i poveri, contadini e miseri artigiani per lo più da una parte, i ricchi latifondisti e i baroni, prepotenti e sfruttatori dall'altra. Mancava quasi completamente una media borghesia, o dove essa esisteva, nelle città e nei centri più grossi, essa era gretta e retriva, brutale e prepotente coi contadini, servilmente ossequiosa con i ricchi. Era stata promulgata in verità nel 1806, col nuovo assetto dato alla legislazione da Napoleone, la legge che aboliva la feudalità. �Ma essa ebbe poca vita, la vita dei napoleonidi� (C. Alvaro, �Aspetti della società calabrese� in Almanacco calabrese anno 1952)
Era naturale che un tale stato di cose, se accettato con passività dai più, generasse anche un atteggiamento di protesta, più o meno cosciente in alcuni, che si concretizza per tradizione inveterata nel Meridione, ma soprattutto in Basilicata e in Calabria, nel brigantaggio.
Questo fenomeno fu per secoli uno stato endemico della società meridionale che ogni tanto esplodeva con particolare virulenza per poi attraversare dei periodi di stasi, ma senza scomparire completamente. La sua origine si perde nel remoto passato della dominazione spagnola; nel 1799 era divenuto strumento nelle mani del Cardinale Ruffo, al servizio della reazione sanfedista, e poi era scoppiato con feroce recrudescenza nel 1806, contro la dominazione francese. Era naturale quindi che le gesta dei briganti formassero una sorta di epopea nella fantasia popolare tramandata oralmente da una generazione all' altra.
Ciò che scriveva il Nitti nel 1899 doveva essere tanto più vero e attuale cinquanta anni prima:
��Per le plebi meridionali il brigante fu spesso il vendicatore e il benefattore, qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, ebbero in molti casi il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ancora adesso nelle lunghe sere d' inverno, nelle notti vegliate, nelle soste di lavoro, trasformate e ingigantite dalla leggenda, si ripetono con compiacenza le storie dei briganti.�
Accanto a questa forma di protesta spesso cieca e incosciente, si andava delineando ad opera di una sparuta classe di nobili ed inetellettuali illuminati e con l�importazione sia pure lenta delle idee risorgimentali dal resto d�Italia, la congiura contro i Borboni. Gi� nel 1812, ancora sotto la dominazione francese, si erano aperte in Calabria le prime vendite carbonare e in seguito anche le idee mazziniane cominciarono a giungere fin l�. Nel 1820 scoppiarono i primi moti rivoluzionari, nel 1843 ci fu l�insurrezione, poi fallita, di Cosenza, causa del sacrificio dei fratelli Bandiera e nel �48 assieme al resto d�Italia anche la Calabria si mosse e si costituirono parecchi comitati rivoluzionari. Ma si tratt� sempre di moti incomposti e mal organizzati e perci� fatalmente destinati a fallire, soprattutto per mancanza di appoggio popolare, poich� il popolo non sentiva ancora quelle idee di libert� e di unit�.
��Il difetto essenziale della cospirazione continuava a essere quello che ne aveva determinato il fallimento nel 1844: l�estrema ristrettezza della base sulla quale la congiura veniva organizzata. Erano piccoli gruppi di liberali, appartenenti quasi tutti a famiglie borghesi quelli che speravano, trascinando dietro a s� i pi� vasti ceti popolari, di costituire una massa d�urto, sufficiente a far vacillare le autorit� borboniche. In realt� perr� quei ceti popolari, che poi erano in Calabria quasi esclusivamente contadini, non venivano associati dai liberali nelle loro rivendicazioni: erano anzi considerati una massa di manovra, alla quale non si poteva richiedere l�impegno dell�eroismo e del sacrificio. Al momento dell�azione e soprattutto del pericolo, quei liberali si trovavano soli e privi di vasti appoggi, faccia a faccia con i potenti reparti dell�esercito e della gendarmeria di Ferdinando II.� (3)
Questi moti assumevano immancabilmente un aspetto sociale oltre che politico, segno del profondo malessere in cui il popolo si trovava, in quanto erano accompagnati ogni volta (e soprattutto lo furono nel �48) dall�occupazione delle terre da parte dei contadini: ma ci� non entrava nelle aspirazioni dei gruppi dirigenti, liberali moderati, che non intendevano certo agitare una questione sociale, contraria ai loro interessi di possidenti o di piccoli borghesi: da qui anche la ragione del fallimento di quei tentativi.

1) F. S. Nitti: �Il brigantaggio meridionale durante il regime borbonico� da �La vita italiana nel Risorgimento, II serie (1831-1846)�.
2) F. De Sanctis: �La letteratura italiana nel secolo XIX, Vol. I, cap. V , pg. 90�.
3) P. Alatri: �La Calabria nel Risorgimento� in �Almanacco Calabrese� (1955) - pag. 24



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