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Data: 31/12/2017 - Anno: 23 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

PER UNA STORIA SOCIOLOGICA DELLA FERROVIA IONICA

Letture: 1345               AUTORE: Ulderico Nisticò (Altri articoli dell'autore)        

Ferdinando II (1830-59) aveva progettato e finanziato una rete di ferrovie, che, secondo le più
radicate consuetudini meridionali, ancora oggi vivissime, rimase progetto e cartacei disegni, e il re morì
lasciando solo la Salerno – Capua, 99 km. I suoi intenti trovarono, senza fretta, attuazione per mano
del Regno d’Italia. La poca ferrovia borbonica era statale; quelle italiane saranno tutte private, fino al
periodo 1905 – 15, quando nacquero le Ferrovie dello Stato (FS), oggi Trenitalia.
Iniziata nel 1865, la Bari – Reggio, partendo dai due capolinea, si congiunse, udite udite, a Soverato
nel 1876.
Una vicenda a parte, la Calabro-Lucana, una rete di linee dalle coste verso l’interno, di società
private. La nostra doveva collegare Soverato con Porto Venere (Vibo Marina); giunse solo a Chiaravalle;
e negli anni 1960 fu dismessa. Qualche tratta ancora è in esercizio, e ricordiamo la Catanzaro – Cosenza.
Questa è, in somma sintesi, la storia del trasporto su rotaia nel nostro territorio. Mi piace però
riflettere sulle conseguenze sociali delle ferrovie nella storia locale: una meditazione di microstoria.
Ancora nel 1876, quasi tutti gli insediamenti erano collinari; sul mare sorgevano Trebisacce,
Corigliano, Cariati, Crotone, Isola, Catanzaro Lido, Soverato, Gioiosa, Roccella, Siderno, e poco
altro fino a Reggio. La navigazione di cabotaggio, che sopravvisse fino agli anni 1940-50, assicurava i
collegamenti, rinati già dal XVII secolo e intensificati in età borbonica: i miei bisnonni materni, soci e
cognati, da Siderno navigavano tra la Sicilia e Crotone. Soverato già nel 1811 viene dichiarata “porto”:
s’intende attracco, così non vengono fantasie tipo Acquario; con le utopie, abbiamo già dato e dilapidato
soldi. La ferrovia s’integrò dapprima con la navigazione; ma inevitabilmente la sostituì grazie ai fattori
della sicurezza e della regolarità, e al non dover dipendere dalle condizioni del mare, atmosferiche e
stagionali. Il ceto marinaro si ridusse e sparì.
Correva da millenni una via costiera, ma senza ponti fissi, e i corsi d’acqua si guadavano con sistemi
di zattere, detti anche carri. Ciò poteva avvenire solo in alcuni momenti dell’anno, e fu un altro evidente
vantaggio sulle rotabili per le ferrovie.
Il tracciato ferroviario aveva modificato radicalmente il paesaggio fisico e antropico. Per dare sede
ai binari, si dovettero bonificare e spianare aree che dobbiamo immaginare selvatiche, dense di canneti e
paludi; e si dovettero innalzarvi ex novo i solidi terrapieni e le massicciate, con ponticelli di muratura: e,
sui corsi maggiori, ponti lunghi, in genere di ferro. Fu necessario scavare percorsi sotto i poggi e in aree
scoscese, soprattutto quando, qualche decennio dopo, si lavorerà sul Tirreno. Porta il nome di Galleria
un quartiere della vecchia Santa Maria di Poliporto, dal 1881 Soverato Marina.
Fu un lavoro immane, e richiese tecnici, maestranze qualificate e numerosa manodopera. I lavori
distribuirono stipendi e salari, e generarono altro lavoro: a Soverato troviamo nascere locande e bar
destinati alle maestranze, e che diverranno poi attività differenziate.
Un effetto interessante per l’economia delle aree montane fu l’utilizzazione del legno di quercia
e simili per ricavarne traversine; si sviluppò una buona attività boschiva. I proprietari dell’interno
beneficiarono ogni tanti anni di un’inattesa boccata di ossigeno finanziario; finché il legname non sarà
sostituito con il cemento, e finì la richiesta e con essa il piccolo guadagno.
Furono necessarie numerose stazioni, e per le esigenze tecniche della linea e per servire i borghi
collinari o interni, da cui si cominciarono a condurre strade, sentieri e “mpetrate”. Per restare al Golfo
di Squillace, e oltre ai centri che già esistevano e sopra elencati, ecco le stazioni di Cutro, Roccabernarda,
Botricello, Cropani, Simeri, Squillace, Montauro, S. Sostene, S. Andrea, Badolato, S. Caterina,
Guardavalle, Monasterace. A volte avevano intorno ancora il deserto, ma intorno sorsero delle prime
abitazioni; e le stazioncine stesse, linde villette, recintate con le caratteristiche sbarre di cemento, che
ancora si possono vedere da qualche parte, divennero modello edilizio: nuclei del futuro.
La frequenza di persone suggerì l’esigenza di sale d’aspetto e luoghi di ristoro, bar e rivendite.
Sotto l’aspetto tecnico, ogni stazione doveva avere, ai tempi dei treni a vapore, depositi di carbone
e serbatoi d’acqua. I convogli seguivano (e seguono!) una sorta di turno nel binario unico, effettuato, prima dell’automatizzazione, con gli scambi manuali. È giusto qui ricordare che, in ormai 140 anni,
sono stati rarissimi gli incidenti, e il sistema ha quasi sempre funzionato.
Si sviluppò così un ceto del tutto nuovo, e variegato: i ferrovieri. Erano numerosi, in ogni stazione,
gli addetti, e a vario titolo: capistazione, bigliettai, operatori degli scambi, manovali; e il personale
viaggiante: capitreno, controllori… tutti poi, alla calabrese maniera, insigniti del pomposo titolo
onorifico di “capo”.
Nelle stazioni più importanti, sorsero interi quartieri per le famiglie dei ferrovieri. Il termine “Scalo”
divenne spesso un toponimo, di cui si smarrì il rude significato burocratico. Per questa categoria sociale,
era stata una rivoluzione, dalla condizione di contadini e pastori.
Le trasformazioni fisiche generate dai lavori della linea, inevitabilmente allargate rispetto alla sola
sede dei binari, incoraggiarono e accelerarono il trasferimento dai colli verso il mare, già lentamente
iniziato da qualche tempo. Si costruirono i nuovi centri costieri a destra e sinistra della linea: si rivelerà
un grave errore cui si cerca invano di riparare.
La linea attraversava dunque dei centri abitati antichi e nuovi, e delle strade, e ciò rendeva
indispensabili i passaggi a livello. Alcuni erano incustoditi, e si sbarravano di sera; altri, allora azionati
manualmente, si alzavano e abbassavano all’orario del passaggio di un convoglio, che era molto
frequente. Vennero perciò assunti i casellanti, o, per meglio dire, famiglie di casellanti, che, prestando
duro lavoro con grandi responsabilità, assicurarono il servizio, muovendo a braccia con una manovella
le sbarre a tutte le ore del giorno e della notte, in cambio di un salario, no di due salari e del bene
preziosissimo di un’abitazione confortevole. Per l’epoca fu un vero progresso sociale, un salto in avanti
di secoli; e i casellanti vennero guardati con ammirazione e invidia, e chiamati anch’essi “capo”, persino
“don”: ascesa davvero vertiginosa! Una storia vera è stata raccontata nel bel romanzo di Antonietta
Vincenzo, “Felicita”, che vede questa crescita umana dal punto di vista di una donna. Le casellanti,
infatti, divisero fatiche, oneri, salari e compensi con i loro mariti, e cominciarono a essere chiamate
“donna…”. Facile immaginare il mutamento di mentalità di queste signore, e delle stesse comunità nei
loro confronti.
I vecchi caselli, ora dismessi, sono divenuti villette dei discendenti degli antichi lavoratori; anche
se a volte dopo lunghe e complicate vertenze giudiziarie. Anche le piccole stazioni hanno cambiato
destinazione.
Capi, ferrovieri, casellanti o erano dei luoghi, o, più spesso, venivano da ogni dove della Calabria; e
molti dirigenti e capistazione erano settentrionali; ma i loro nipoti sono calabresissimi.
I treni favorirono i viaggi e i contatti, prima lenti e difficili, e condizionati dalla meteorologia e dalle
stagioni.
I commerci viaggiavano, agli inizi, quasi solo su rotaia. Le merci venivano scaricate e distribuite da
facchini (“vastasi”, in dialetto, dal greco “bastazo”; ma il senso è ambiguo come l’equivalente italiano),
organizzati in “carovane”.
Caratteristici erano i venditori ambulanti, che con il loro ingombrante bagaglio usavano il treno per
lavorare nei paesi; e poi in qualche modo si avventuravano anche nelle campagne.
Gli studenti universitari andavano in treno a Messina o a Bari; quelli delle medie, a Soverato o a
Locri o a Catanzaro.
Si racconta che i pescatori di Soverato, quando si accampavano per parecchi giorni sulla spiaggia di
S. Andrea, usavano il treno per andare e venire in giornata con viveri e cambi di biancheria.
I ferrovieri viaggiavano gratis, e qualcuno di loro, ormai in pensione, è rimasto orgogliosamente
privo di patente automobilistica! Gli impiegati statali godevano, un tempo, di sconti sensibili sui biglietti.
Durante la Seconda guerra mondiale, la ferrovia era percorsa da un treno armato con potenti pezzi
antinave. Nel 1943, linee e stazioni subirono pesanti bombardamenti angloamericani.
La linea ionica non ha ricevuto, nei decenni, molte innovazioni e migliorie, ed è sempre a binario
unico; solo avvenne la progressiva sostituzione delle vaporiere con le automotrici diesel, dette, dato
il periodo fascista, le Littorine: una locuzione che, anche dimenticato il significato originario, si usa
qualche volta tuttora. Negli anni 1930 venne tracciata la statale 106, con i ponti fissi di cemento che attraversiamo tuttora.
Per quanto oggi inadeguata, la rotabile ha consentito uno sviluppo del traffico su gomma tale che, da
qualche anno, ahimè, la linea ionica è di sempre più scarsa utilizzazione, quasi solo per uno striminzito
traffico passeggeri; e sono scomparsi quei “treni merci” che, ricorderanno i più anziani, impiegavano
parecchi minuti ad attraversare i passaggi a livello, trainando fino a 44 pesanti vagoni. Con la ferrovia,
sono venuti meno, in grandissima parte, anche i ferrovieri.


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