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Data: 31/03/2007 - Anno: 13 - Numero: 1 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

Ricordo di Gerhard Rohlfs: il più grande amico della Calabria, il suo più sanguigno amante

Letture: 1147               AUTORE: Achille Curcio (Altri articoli dell'autore)        

(Di Achille Curcio abbiamo già scritto altra volta, quando abbiamo pubblicato una sua bella poesia (n° 3/2003, pag. 3). è stato poi tra noi, in Badolato Marina, tra i relatori al Convegno d’intitolazione di una piazza al grande Gerhard Rohlfs, organizzato da “La Radice” con la collaborazione dell’Amministrazione comunale di Badolato. A scrivere del poeta e scrittore Achille Curcio non serve la nostra penna: parlano egregiamente le sue numerose opere che hanno già da tempo varcato i confini nazionali.
Gli abbiamo chiesto, questa volta, di scrivere di Rohlfs che egli ha avuto il piacere di conoscere in uno dei viaggi in Calabria del glottologo tedesco. E che ha avuto l’onore, ben meritato, di venire citato nel Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria (Longo Editore, Ravenna 1982, pag. 33). Il poeta ha risposto senza esitazione alla nostra richiesta, scrivendo per i lettori de “La Radice” quanto segue, che è tanto più della memoria richiesta. Noi lo ringraziamo ancora, anche per averci regalato momenti di commozione nella parte finale del suo pregevole scritto).

Ricordo di Gerhard Rohlfs: il più grande amico della Calabria, il suo più sanguigno amante

C’era una volta, negli anni venti, un giovane tedesco, minuto, fragile, con degli occhi vivi come quelli di una volpe; un tedesco che aveva iniziato gli studi dei dialetti italiani tra i prigionieri del fronte francese e della Germania.
Quel minuto professore si chiamava Gerhard Rohlfs: diverrà nel tempo il più grande amico della Calabria, il più sanguigno amante di questa terra.
Mentre tutti i viaggiatori stranieri, che scendevano verso il Sud d’Italia, evitavano la Calabria e raggiungevano la Sicilia via mare, l’esile professore nel 1921 partì per la nostra regione e si fermò nelle sue contrade. Era stato quasi timoroso che, come tedesco, gli Italiani lo avrebbero potuto considerare ancora un nemico, per via della guerra da poco conclusa.
Quell’anno, nonostante i timori e i dubbi, Rohlfs era l’unico germanisa che viaggiasse in Calabria.
Chi lo conobbe collegò la sua figura a quella di un altro grande viaggiatore tedesco ed è lo stesso professore a raccontarlo.
Allorché si aggirava per i boschi della Sila, a raccogliere parole dialettali, un giorno si imbattè in un vecchio pastore vestito con le calandrelle ai piedi, i pantaloni al ginocchio, il cappello a cono (cappiellu pizzutu o cappiellu a cervune). Il vecchio gli chiese chi fosse e, sentito che era tedesco, esclamò:
“Dunca vui siti comu a donnu Teodoru!” Il pastore ricordava, infatti, di aver conosciuto, alla fine del secolo precedente, un altro professore, che si aggirava per le montagne calabresi alla ricerca di antichità: era Theodor Mommsen, grande storico, filologo e archeologo, la cui “Storia romana” per originalità e genialità dei giudizi influì enormemente su tutta la storiografia romana e classica.
A quella meravigliosa figura di studioso verrà associato il minuto Gerhard per le sue ricerche in Calabria.
La nostra terra gli si presentò “così bella e tanto simpatica - scrisse - C’erano pochi alberghi, ma una incredibile ospitalità”.
Passando da paese a paese, da famiglia a famiglia ebbe modo di studiare i vari dialetti.
“Da metà aprile - annotò - a metà settembre girai per tutta la Sila, gradito ospite delle migliori famiglie che avevano le proprietà in Sila e lì villeggiavano: Barracco, Berlingieri, Lucifero, Verga, Zurlo, la marchesa De Seta e tanti altri. Ebbi così larga occasione di studiare i dialetti dei loro guardiani e massari; e poi da settembre a ottobre attraverso i paesi del litorale jonico”.
Nel corso del suo straordinario girovagare si formarono in Rohlfs quelle conquiste scientifiche che si sarebbero arricchite di altre testimonianze nel tempo.
Le sue interviste con la gente ebbero sempre la serietà di un cerimoniale liturgico. Nei campi, nelle bettole, negli angoli delle strade o delle piazze, dovunque, il suo colloquio aveva la seduzione di un rito: la sua parola affascinava i presenti e, poi, ad un tavolo di una bettola a gustare un bicchiere di vino e una manciata di lupini, con discrezione a porre domande, a chiedere garbatamente chiarimenti utili al suo lavoro.
Il contatto diretto con la gente era da considerare uno scavo in quel patrimonio linguistico che i contadini serbavano, ignari di tanta ricchezza agli occhi dello studioso tedesco. Egli stesso considerava il suo lavoro un’operazione di escavazione in quel mondo greco-latino che caratterizzava il parlare di quella gente, tanto da intitolare una sua pregevole ed interessante opera “Scavi linguistici nella Magna Grecia”.
Il rapporto con la Calabria durò oltre sessant’anni: viaggi continui con lo zaino attraverso l’Italia, molte volte a dorso di asino, per fermarsi da giugno a settembre nella nostra regione. In alcuni paesi, addirittura, quando arrivava per radunare la gente, il prete mandava in giro il banditore, per annunciare che era arrivatu ’u professura todescu e che aspettava tutti in piazza.
Il poeta contadino Giuseppe Coniglio di Pazzano, così lo ricorda in una sua poesia: “Avìa tornatu appena d’o lavoru/tuttu sudatu e mi stacìa lavandu,/quandu nt’a ruga ntisa nu vuciara/e du spazzinu jettava ’u bandu./Dicìa ca dint’a chiazza d’o mercatu/vinna nu professuri Germanisi/chi volìa ’u senta a nui comu parramu/c’avìa mu scriva ’a lingua calabrisi./E ognunu chi sapìa paruali antichi/era tenutu ’u vacia mu nci cunta/ca chidu si notava nt’a libretta/e cercava cu l’atti ’u mi cumprunta./Figurativi cu mai potìa cridira/ca mò nu professori ’e chidi strani/venìa pe ccà m’apprenda ncuna cosa/ammienzu quattru zambari ’e paisani”. (Ero tornato appena dal lavoro/tutto sudato e stavo per lavarmi/quando mi giunse un vociare dalla strada/e lo spazzino che bandiva la notizia/che nella piazza del mercato/era arrivato un professore tedesco,/che desiderava sentire come parlavamo,/perché doveva trascrivere la lingua calabrese./E ognuno che conosceva antiche parole/era invitato a pronunciarle/perché quello le avrebbe trascritte/per confrontarle poi con altre./Chi mai poteva credere/che un professore straniero/veniva dalle nostre parti per apprendere qualcosa/in mezzo a quattro bifolchi di paese.)
La fama dello studioso, accresciutasi nel meridione d’Italia e nei Pirenei, si espandeva per tutta l’Europa tanto da procurargli meriti e gloria, conferimenti di cittadinanze onorarie, lauree ad honorem in tutte le capitali europee.
Ordinario di Filologia romanza presso le Università di Tubinga e di Monaco di Baviera, studioso di fama internazionale, fu membro della prestigiosa Accademia della Crusca di Firenze, dell’Accademia dei Lincei di Roma e della autorevole Accademia Svedese di Stoccolma.
Quanto deve a quest’uomo la nostra comunità è indicibile: non abbiamo preso ancora coscienza di quanta ricchezza ha profuso nella nostra cultura il suo operare; quanti nostri tesori, che non erano conosciuti, ci ha restituito col sorriso dell’homo pius. Quanti elementi della nostra storia sono stati da lui recuperati e offerti alla nostra gente come dono per l’ospitalità ricevuta.
I suoi atti di amore verso la Calabria sono consacrati nelle sue opere; e la sua riconoscenza verso la nostra terra è scolpita nella dedica che apre la prima edizione del Dizionario delle tre Calabrie e che si ritrova in tutte le altre edizioni: “A voi Calabresi che accoglieste ospitali me straniero nelle ricerche e indagini infaticabilmente cooperando alla raccolta di questi materiali dedico questo libro che chiude nelle pagine il tesoro di vita del vostro nobile linguaggio”.
Ci viene da chiederci quale sia stata la nostra riconoscenza verso un uomo che ha dedicato la sua lunga e laboriosa vita alla nostra storia linguistica, al recupero di una identità che stava per dissolversi nell’immensità del nulla; cosa abbiamo fatto per dimostrarci eredi di una civiltà che ha ritmato i giorni della nostra storia; quali atti di considerazione, di omaggio, di esaltazione abbiamo riservato a questo minuto tedesco che l’umanità considera il più grande glottologo esistito.
Lo conobbi negli anni settanta e lo ebbi molte volte mio ospite sulla spiaggia di Calalunga. Lo guardavo estasiato, come un dio sceso nel mio orticello linguistico, a seminare un tesoro che avrebbe arricchito il mio mondo poetico. Gli rallegrava il volto un radioso sorriso, e quel suo fare spontaneo mi procurava un interesse vivo mentre stavo ammaliato ad ascoltare il suo dire.
La sua conversazione aveva il calore del focolare: toni familiari di un’amicizia che sembrava lievitata nel tempo e negli affetti. Un uomo saggio, nei gusti, nel dialogare. Da nord a sud d’Italia parlava ad ognuno il suo dialetto; ognuno lo sentiva come paesano, fino ad amarlo.
Nel suo viaggiare di paese in paese, dedicava la prima visita al parroco o al segretario comunale. Negli anni trenta mio padre reggeva da segretario il Comune di Montauro; lo ricevette con grande interesse e si sentì onorato di averlo a pranzo. Quel minuto professore divenne nei discorsi di mio padre “un sanguigno amante della Calabria”, che conosceva chi eravamo e da dove eravamo venuti; “un pettegolo” che sapeva tutte le nostre cose - diceva nonna Peppina - anche se veniva dalla lontana Germania.
Sulla seconda edizione del suo Dizionario delle tre Calabrie volle lasciarmi, come segno della sua cordialità, la dedica “al carissimo amico Achille Curcio con memori ricordi, Copanello 27 marzo 1976”.
Da quando il Comune di Badolato, unico in Calabria a farlo, lo ha onorato dedicandogli una piazza sentiamo di non averlo dimenticato: avvertiamo la sua presenza come non mai; ancora ospite gradito tra quella gente che, indicibilmente ospitale, ha accolto amorevolmente in questi ultimi anni profughi curdi, sospinti dal mare sulle nostre spiagge.
E quando ci vien fatto di ascoltare un vecchio contadino o un pescatore, rinsecchito dalla salsedine, parlare la lingua di questa terra, immaginiamo che c’è tuttora il professore tedesco, attento ad annotare ogni parola. Ciò sta a significare che il suo spirito d’innamorato aleggia ancora su di noi: lo rivediamo anche adesso, nelle calde notti d’estate sulla terrazza di Copanello, socchiudere gli occhi e scorgere, con lo sguardo della memoria, Ulisse navigare silenziosamente su quel mare saturo di sale e di storia.



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