Data: 30/12/2020 - Anno: 26 - Numero: 2 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Concetta è nata, ormai tanti anni fa, in un paese del profondo sud d’Italia, un centro urbano collinare, in cui la distinzione tra le classi sociali è stata nei secoli sempre evidente e difficilmente mutabile. Nata in una famiglia di contadini, era destinata a vivere per tutta la vita nel mondo verde dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame. Ma suo padre, a differenza di tantissimi altri braccianti agricoli, veniva spesso assunto a fare l’operaio presso imprese edilizie di vario genere. Quale operaio, difatti, subì persino il confino, negli anni Trenta, per aver pubblicamente protestato -si disse- , insieme ad altri, per il ritardato pagamento del salario dovuto per giornate lavorative alla costruzione del nuovo ponte della strada ferrata sul torrente Ponzo. Concetta, pertanto, e suo fratello Raffaele, sarebbero stati avviati fin da bambini al lavoro dei campi se il padre fosse stato soltanto bracciante agricolo e non anche bracciante industriale, attività che gli procurava dei contanti e quindi un certo benessere. Condizione quasi di privilegio che consentì alla famiglia di Còsimu ’e fìmmana vecchja di fare un salto di qualità, dando ai figli la non comune possibilità di passare dal ceto contadino a quello artigiano, certamente non ricco ma socialmente più elevato, tipo di cerniera tra la stragrande maggioranza della gente dei campi e i non pochi borghesi del paese. Raffaele, quindi, fu discepolo di bottega e poi sarto sino alla partenza, nei primi anni Cinquanta, per l’Argentina, dove mise su famiglia e dove finì i suoi giorni, senza aver mai più rivisto il suo paese. Concetta, dal canto suo, ebbe la possibilità di cominciare a realizzare il suo sogno di diventare una moderna sarta. Finita la scuola dell’obbligo, che da alcuni decenni era passato dalla terza alla quinta elementare, un bel giorno di primavera la piccola Concetta fu accompagnata dalla mamma da una delle più brave sarte, che abitavano nella parte alta del paese, e facevano le “maìstre” in casa, così come le tessitrici e le ricamatrici, poiché solo i mestieri maschili, falegname fabbromaniscalco sarto-barbiere…, venivano esercitati in locale attrezzato a bottega artigianale, in molti casi collegata all’abitazione. Fu un giorno felice, per la piccola discepola, già consapevole che se avesse avuto la capacità e la costanza di seguire ad occhi ben aperti quella elegante, simpatica e brava signorina che aveva davanti, sarebbe diventata in poco tempo la migliore tra le numerose apprendiste tra le quali era venuta a trovarsi. L’impegno l’assiduità e la capacità di apprendimento diedero fin da subito lusinghieri risultati che facevano bene sperare per il futuro. Intanto la bambina era diventata un’adolescente, e quindi una simpatica signorinella sulla quale cominciavano ad orientarsi gli sguardi e le attenzioni dei giovani del luogo, ed anche l’ammirazione e la simpatia di non poche madri che avevano figli maschi già pronti a metter su famiglia. Nel volgere di pochi anni Concetta, ’a figghja ’e Còsimu ’e fìmmana vecchja e de Nunziàta ’a Rosàta, era diventata una brava sartina alla quale si rivolgevano tante famiglie per la confezione di ogni capo d’abbigliamento femminile, dal grembiule all’abito da sposa. Elegante, equilibrata e seria, era ormai considerata un buon partito per giovani altrettanto seri del paese, che non fossero, naturalmente, contadini, perché una sarta era destinata ad andare sposa ad un altro artigiano, od anche, ma raramente, a qualcuno che avesse un impieguccio. E numerosi erano i giovani che l’avevano adocchiata, e già progettavano di avvicinarla, prima o poi. Una mattina del mese di dicembre, mentre era nella chiesa dell’Assunta dove si era recata con la madre per la Novena di Natale, alzando gli occhi Concetta incrociò lo sguardo limpido e sereno di Nato, un giovane fabbro del paese, che aveva già bottega, ereditata dal proprio padre. Una persona affidabile, il giovane fabbro, di cui erano note e venivano apprezzate tante belle qualità. Con il continuo lavoro nella forgia portava avanti la famiglia, fin dalla morte del padre, quando egli aveva ancora diciotto anni. Cattolico praticante, dedicava parte del suo tempo alla Confraternita dell’Assunta di cui era membro assiduo, collaborando anche alla manutenzione della chiesa per quel che poteva grazie al suo mestiere. Suonava la chitarra di cui faceva uso soprattutto per coinvolgere tanti suoi giovani coetanei in incontri di musica, ballo, teatro di strada a Carnevale. Quell’incrocio di sguardi, quella mattina nella chiesa dell’Assunta, è stato il tacito accordo e il valore di legame tra due anime cristalline. In quel momento ebbe inizio un percorso che avrebbe portato i due all’unione per tutta la vita. E ciò, nonostante qualche anno in più sulle spalle di Nato, e qualche minuta crepa nella sua salute, a causa dell’eccesiva fatica alla quale si sottoponeva. Due fattori, non proprio positivi, ma che non hanno costituito ostacolo al progredire del nobile sentimento che andava irrobustendosi giorno dopo giorno, serenata dopo serenata. Sì, perché Nato non mancava di portare, di tanto in tanto, la serenata con la chitarra o con il giradischi sotto la finestra della sartina. Così per un tempo non tanto lungo, perché non ritenevano i due giovani, di rimandare a lungo ai genitori di Concetta la comunicazione formale dei propri reciproci sentimenti. Si era arrivati intanto all’autunno inoltrato, alla stagione della seminagione dei cereali nelle marine e della raccolta e molitura delle preziose olive nei numerosi frantoi del paese, attività obbligate un po’ per tutte le famiglie del luogo, quindi anche per i genitori di Concetta. Una sera di novembre il bravo Cosimo si recò al frantoio vicino casa dove si stava procedendo alla molitura di una sua màcina di olive. Nell’oziosa attesa della fine dell’operazione ebbe occasione di scambiare poche parole con un tale che era noto tra la gente come persona che conosceva tutto di tutti. Conversando chiese tra l’altro al padre di Concetta se era vero che la figlia si era fidanzata con Natu de’ Forgiàri. Quello rispose che no, che non ancora, che i due giovani intendevano fidanzarsi, ma lui, il giovane fabbro, non aveva ancora chiesto ufficialmente la mano della figlia. “Ma u sapìti -disse il tale che sapeva tutto di tutti- ca u giuvanòttu è malàtu ’e cora?” Il buon uomo, che non sapeva nulla, rimase tanto sorpreso e frastornato da non profferir parola. Riuscì malamente a ostentare indifferenza, e s’avviò verso la gira a guardare le sue olive che venivano maciullate da due granitiche pesanti macine fatte girare da una robusta vacca. Quando rientrò a casa, dispiaciuto e rattristato, ne parlò con la moglie, e anche per lei fu sorpresa e dispiacere, perché il giovane Nato era un buon partito, ma la figlia, decisero i due genitori, non poteva sposare un giovine malato: doveva dimenticarlo. La decisione fu comunicata la sera stessa a Concetta, che ascoltò senza parlare, e rinviò il pianto a quando si trovò sola nel suo lettino, nel buio e nel silenzio della notte. L’indomani, con la stessa amica vicina di casa che aveva favorito i pochi incontri segreti tra i due, fece recapitare a Nato una pagina di quaderno su cui c’era scritto: “Non venire all’appuntamento, non domani e mai più, e non mi fare più serenate. Mi dispiace. Addio.” E Nato non riscontrò mai il messaggio: non ne ebbe la forza, né il modo. Ne soffrì soltanto, quanto non è facile dire ma si può immaginare; ne fu scosso in tutto il suo essere, cuore compreso. Continuò a lavorare sodo, anche per distrarsi in qualche modo, e ad incontrare alcuni giovani amici che gli erano affezionati. Presto, in un freddo giorno di gennaio, arrivò la signora con la falce, quella che “pareggia tutte l’erbe del prato”. E fu la fine. Ma la vita continua, a dispetto di tutto e di tutti. Passarono alcuni anni e la sartina Concetta, figlia di Cosimo ’e fìmmana vecchja, si fidanzò con un bravo giovine che veniva da lontano, che la portò all’Altare. Dal matrimonio nacquero dei figli, e “fu famiglia”, famiglia normale, tranquilla, serena, sana. Si sa, con gli anni s’invecchia, ci si ammala, si finisce. E fu l’ora anche della mamma di Nato, invecchiata e uccisa dalla vedovanza e dalla scomparsa del figlio, carne della sua carne. Una donna di cui si sente parlare ancora oggi: a distanza di oltre cinquant’anni, in chi l’ha conosciuta sono vivi il ricordo e la stima. A far visita alla defunta nella casa che fu anche del giovane Nato, quel giorno non mancava nessuno: tutto il popolo era lì, alternandosi accanto alla bara, per dare l’ultimo saluto a una donna che aveva tanto amato e sofferto, con forza d’animo e dignità. Mancava, però, Concetta, che soffriva in silenzio a casa propria, torturandosi nel dubbio se era opportuno che andasse anche lei a far visita alla mamma di Nato, o se fosse consigliabile starsene a casa, nell’indifferenza per il triste evento. Non indugiò a lungo, però: si alzò di scatto, coprì la testa con una veletta e si diresse decisa all’ultimo saluto alla donna che la vita le aveva negato di chiamare mamma. All’arrivo, non si fermò nella stanza in cui decine di altre donne recitavano il Rosario, ma andò oltre, sino alla bara. Sostò ritta, assorta come in preghiera, poi si piegò, lentamente, e posò un bacio sulla fredda guancia. Ancora lentamente si girò e si avvio verso la porta, per fare ritorno alla sua casa, alla sua famiglia. Non molto tempo fa, rimembrando nel corso di una conversazione quella lontana triste giornata, rivelò serena, come in confessione: “Appena ho messo piede in quella casa ho avuto la sensazione di sentire provenire da lontano le note musicali emesse da una chitarra. E son tornata ad un lontano passato. Non avevo mai baciato una persona morta, neanche i nonni: a spingermi a dare quel bacio è stato Nato.”.
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