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Autore:Mario Ruggero Gallelli     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2021 - Anno: 27 - Numero: 3 - Pagina: 9 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

UN CARME LATINO DI LORENZO VISCIDO

Letture: 884               AUTORE: Giovanni Napoletano (Altri articoli dell'autore)        

AD PATRIUM SOLUM
Quam mihi laetificum est tua rursum visere amoena
Tempus post laxum tristeque, terra parens!
Dum modo discedunt peracerbae pectore curae,
Te videor numquam deseruisse diu.
Hic, Pellenae amnis pulcherrima litora propter,
Cuius corda beans murmur ad astra levat,
Hic, patria o dilecta, remansi et saepe poesis
Lumine iucundo mens penetrata mea est.
Flacci namque metris nonnullis gnaviter utens,
Hic primum incepi nectere verba modis
Ardentique animo tibi carmina grata dicavi
Queis dumeta etiam nunc salicesque sonant.
Praeterea Phoebum divinum dulce tegentem
Aurato lamnis cuncta colore die
Hic omni aspexi, perfulgida quo tua imago
Luminibus praestans paruit usque meis.
Oh, te ne rursum, natalis terra, ego linquam,
Vexer neu posthac turbine tristitiae!
Laurentius Viscido
Alla terra natia
(trad. in prosa)
Quanto mi rallegra, o terra madre, rivedere, dopo lungo e triste tempo, i tuoi ameni luoghi!
Mentre amarissimi affanni si allontanano ora dal petto, a me sembra di non averti mai lasciato a
lungo. Qui, vicino alle sponde assai belle del fiume Pellena, il cui allietante mormorio solleva agli astri
i cuori, qui rimasi, diletta patria, e spesso la mia mente fu penetrata dalla gioconda luce della poesia.
Usando con zelo, infatti, alcuni metri di Flacco, qui cominciai a connettere, per la prima volta, parole
con ritmi ed a te, ardentemente, dedicai graziosi carmi, ancor risuonanti fra cespugli e salici.
Qui, inoltre, ogni giorno vidi il divino Febo coprire soavemente tutto di lamine color d’oro, motivo
per cui straordinario si manifestò sempre ai miei occhi il tuo luminosissimo aspetto.
Oh, non di nuovo ti abbandoni, terra natale, né d’ora in poi sia tormentato dal turbine della tristezza!
-------------
Questo carme latino, risalente al lontano 1995, è stato composto da Lorenzo Viscido, uno studioso
squillacese che, oltre ad aver condotto moltissime ricerche filologiche, soprattutto relative a Cassiodoro
e all’innografia greco-medievale, ha pure coltivato il gusto per la poesia latina, frequentando vari generi
letterari, dall’epigramma, nelle sue varie tradizioni e applicazioni, alla lirica e via dicendo.
Il componimento (in distici elegiaci) ha per tema quello di descrivere le sensazioni che si provano nel
rivedere dopo tanto tempo la terra natale. Simili descrizioni sono a volte di maniera, prive di specifiche
motivazioni o tutte letterarie, così numerose nel mondo greco e latino che non vale neppure la pena di
elencarle. Altre volte, però – e qui ci troviamo in un caso di questo tipo –, le vicende personali sono forti
e significative, e lo sforzo di raccontarle in un linguaggio elaborato è il modo migliore per evitare che la
poesia consista in un semplice grido senza la raffinata ricerca dell’arte.
Pur costretto a fare i conti con una lingua che non è quella da lui naturalmente parlata, con una
prosodia e una metrica che non gli possono venire istintive perché estranee alla nostra pronuncia
e sensibilità ai suoni, nondimeno Viscido trova nella poesia latina un’ottima guida tradizionale. Egli
riesce, così, a far decantare l’immediatezza delle emozioni e a riviverle portandole lontano nel tempo
per poi riprenderle, facendole diventare, però, non esclusivamente sue e, quindi, possibile patrimonio
dell’umanità. In definitiva una sensazione che poteva essere troppo personale, irripetibile diviene invece
un ‘classico’ e, come ogni ‘classico’, si apre a tante letture quanti sono coloro che leggeranno il carme e
-per i particolari stati d’animo in cui si troveranno nel fare ciò, per i personali ricordi, per qualunque altra
coincidenza- non solo renderanno propri gli esametri e i pentametri di quel testo poetico, ma saranno grati
all’autore di aver dato loro le parole con cui descrivere se stessi.
Per una catastrofe naturale Lorenzo Viscido è stato costretto a lasciare l’Italia in cerca di fortuna
altrove e, dopo sacrifici, ha trovato una dignitosa collocazione, nonché ottenuto riconoscimenti per
la sua attività culturale. Egli, tuttavia, non è soddisfatto; sente il bisogno di tornare nella sua patria, a
Squillace, che immagina di non aver mai abbandonato. Descrive, dunque, il proprio senso di appagamento
in occasione di un rientro che vorrebbe -che spera- definitivo, perché il contatto con quella realtà
ricostruita per molto tempo soltanto col pensiero gli consente di scavalcare il lungo periodo trascorso al
di là dell’Oceano (Te videor numquam deseruisse diu) e di stabilire una consolatoria continuità con la
rimozione di anni e anni ritenuti tristi.
È bello sperare nel lieto fine di una brutta storia e poterne gioire come in quelle favole che dopo tante
peripezie ripristinano lo stato di felicità preesistente; ma Viscido è consapevole della mutevolezza della
fortuna e del fatto che, per dirla con Lucrezio (IV, 1133-34), [...] medio de fonte leporum / surgit amari
aliquid [...]. Ecco, allora, che il rursum del penultimo verso (“ancora una volta”) prevale sull’esametro
iniziale riducendo la gioia a una breve durata e proponendo per un futuro, incerto ma temuto, la ripresa
delle sofferenze (vexer).
L’illusione che l’allontanamento dalla patria da parte del poeta sia come mai avvenuto costituisce un
attimo di letizia che supera la sua lunga pena di essersi adattato a consuetudini, atmosfere, ambienti che
non erano suoi, né tanto meno erano stati voluti. Questa pena, purtroppo, è nel destino di tanti uomini.
Lorenzo Viscido, però, non l’ha vissuta passivamente: egli è stato capace di farla diventare poesia,
rendendo nota agli altri, mediante lodevoli versi, una sua intima, dolorosa esperienza.


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