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Autore:Mario Ruggero Gallelli     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2008 - Anno: 14 - Numero: 3 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

VINCENZO CHIEFARI

Letture: 1135               AUTORE: Antonio Barbuto (Altri articoli dell'autore)        

dedicato a mio zio Ciccio per i suoi primi bellissimi novant’anni e perchè nella sua scelta, e, per me adolescente, ricca biblioteca ho letto per la prima volta “Pecchì non mi spusai”.

Vincenzo Chiefari per quelli di Soverato Superiore fu sempre “u segretariu”, “u cavaleri” e per la mia famiglia “u compari Vicenzinu”: tutti e tre titoli di grande rispetto e deferenza. Infatti l’aver conseguito il diploma di insegnante elementare e aver insegnato per due anni cede il ruolo a quello di Segretario Comunale che esercitò dal 1925 fino al 1960 a Vallefiorita, a Davoli e a Satriano.
Era nato il 2 novembre 1898 ed è morto l’11 ottobre 1973.
Io dopo quella lettura adolescenziale di Pecchì non mi spusai ho frequentato la produzione poetica di Chiefari di prima mano, come testimoniano le dediche affettuose con cui accompagnava ogni suo nuovo volume -credo di essere l’unico a possedere tutti i suoi libretti- e gli sono sempre debitore sia per avermi aiutato a pubblicare qualche poesia su “Calabria letteraria”, sia in special modo per tutto quel suo darsi da fare a pubblicare un esile mannello di miei versi presso Abramo di Catanzaro, scrivendone la prefazione.
Se di quei versi non mi vergognerò mai abbastanza, di quella prefazione Gliene sono ancora grato e per sempre. Perchè in fondo se sono diventato un homme de lettres lo devo anche a quel garbato incoraggiamento contenuto in quelle righe. E quindi alle esortazioni di poi.
Quando ha deciso di congedarsi e tornarsene a Soverato Superiore, le persone giovani con cui si faceva la passeggiata sul far della sera verso “a rinara” erano: il sottoscritto e Antonino Corasaniti che eravamo, manco a dirlo, amici inseparabili.
Devo riferire un episodio di insospettabile “educazione sentimentale”. Nel 1960 ci sono state le elezioni amministrative e a Soverato c’erano tre liste: una di sinistra, quella della DC, e una lista cosiddetta civica. Io ho votato per la lista di sinistra, però ho cancellato due candidati per trasferire i due voti sulla lista civica dove s’erano presentati Vincenzo Chiefari e il mio compagno di studi Mimmolino Caminiti: da una parte il voto allo schieramento politico professato, dall’altra la fedeltà alle persone dell’amicizia, alla stima e devozione dell’allievo al maestro.
Vincenzo Chiefari fu un uomo mite, gentile che traduceva nei tratti la buona educazione della famiglia bene d’una volta coniugata alla nobiltà della poesia e dell’educazione letteraria che professava con grande dignità e decoro.
Il suo atteggiamento riservato e distaccato non è stato in alcun modo una scelta sprezzante nei confronti degli altri, ma si è trattato di una vocazione coltivata e perciò razionale: trascorrere il suo tempo libero in conversazioni gradevoli che lo facevano stare a proprio agio e non in difficoltà.
Se vogliamo, si può parlare di un attento e disarmato cultore del principio del piacere che a Soverato Superiore fino a cinquant’nni fa si poteva conseguire con poco: buona tavola, letture scelte, il continuo esercizio poetico, frequentazione di qualche amico con cui sentirsi in sintonia.
E non è una contraddizione la sua candidatura alle elezioni di cui sopra: lui non aveva niente del politico secondo vulgata. Ha solo ceduto alle insistenze e a un grano di vanità perchè in fondo si aveva bisogno -ma non solo allora- di ottime persone da eleggere all’amministrazione delle sorti di una popolazione. E Chiefari era un galantuomo a ventiquattro carati.
Perchè tutto questo racconto? Per il semplice motivo che la sua poesia riflette fedelmente la sua concezione del mondo con tutte le sfumature e le cose visibili che intrecciano la vita d’un uomo.
Vincenzo Chiefari ebbe una concezione lirica della vita, cioè idillica che è propria -possiamo dirlo?- di chi si meraviglia di essere presente là dove la vita sfiora. O più realisticamente incapacità di vivere pienamente, come gli altri.
“La disposizione idillica, scrive Croce, è appunto questa: il rifuggire dalla pienezza della vita, l’aborrire il mare con le sue tempeste e tenersi alla terra. Non già, beninteso, ch’essa riesca ad escludere del tutto quella lotta da cui rifugge [...] ma ideale di una vita nella quale la lotta e l’agitazione siano ridotte al minimo [...] la fatica che fa assaporare la dolcezza del riposo, il dolore senza cui non è possibile confortarsi nel superamento del male e trepidare nel ricordo; [...] un mondo, mutevole il meno possibile o il meno rapidamente”.
Se accettiamo questa interpretazione, allora forse ci rendiamo pienamente conto di tutte le conseguenze comportamentali (sentimentali, ideologiche) che specificano la vita di Vincenzo Chiefari che può -e deve- essere letta come caratterizzata fortemente, se nel caso di Chiefari si può adoperare un avverbio così prepotente, dall’indecisione (come incapacità consustanziale di assumere posizioni “forti”) dal mettersi sempre in un posto dal quale non si può che sfiorare la vita, una sorta di arrivare sempre fuori tempo massimo, perdere sempre l’ultimo tramvai, e quindi una specie di condizione d’attesa dell’occasione buona che, puntualmente, si presenta ma non si hanno gli occhiali messi a fuoco nel modo giusto per vederla e quindi coglierla e goderne i frutti.
Da qui scaturisce il rimpianto per le rose non colte, per le cose che avrebbero potuto essere e non sono state, di cui la poesia di Chiefari naturalmente si nutre.
Nei suoi versi questo atteggiamento si traduce, ad alto livello d’impostazione e di risultati, soprattutto nei testi che esprimono la sua concezione dell’amore e della donna.
In tutti i luoghi che riguardano questo tema abbiamo la più limpida traduzione del modo di essere di Chiefari.
Se non fosse fuori moda -ed è per questo che invece lo sottolineo- la sua concezione dell’amore è definibile secondo la formula ora impraticabile (ma che fu una costante della poesia in lingua e in dialetto) dell’amore platonico, della lontananza, fatto di sguardi, di sogni, di esaltazioni e quindi di rimpianto, di struggimento per la fine di quella cosa o per il riconoscimento della propria incapacità a viverla completamente.
Perchè la concezione tipica come quella che riteniamo sottendere la poesia di Chiefari è proprio quella di pensare a una realtà sempre desiderata ma che non può essere mai raggiunta e, tutt’al più, se accade per caso di sperimentare veramente quel qualche cosa che nel linguaggio comune viene chiamato rapporto amoroso, avviene che se ne esce del tutto insoddisfatto perchè lui credeva che... perchè era altro che lui voleva, era altra l’immagine che s’era fatta di lei etc.
Il ricordo dell’Aspasia leopardiana è prepotente. Ma lasciamo stare perchè i rimandi sono infiniti.
Siamo nella più palmare concezione che idealizza, cioè che concepisce la donna e l’amore, fuori dei confini realistici e concreti.
Per ragioni tiranniche di spazio non posso citare i versi, ma almeno rimando a qualche titolo che si può controllare nel Fondo Chiefari della Biblioteca Comunale di Soverato: A fimmana, Non ti vogghhiu cchiù, Caramanti, Lu sorrisu toi, L’amuri e mo’ e d’atri tempi.
Provo ad accennare ad alcuni temi della poesia di Chiefari, ricordandoci delle due o tre cose dette prima a proposito della concezione della vita che professò il nostro poeta.
E un’altra cosa dobbiamo tenere presente, che stiamo parlando d’un poeta dialettale. E qui ci soccorre Luigi Pirandello il quale ha osservato (Saggi, poesie, scritti, vari, Mondadori, 1960, p. 1208): “Una letteratura dialettale [...] è fatta per restare entro i confini del dialetto. Se ne esce, potrà essere gustata soltanto da coloro che di quel dato dialetto han conoscenza e conoscenza di quei particolari usi, di quei particolari costumi, in una parola di quella particolare vita che il dialetto esprime”.
Non solo, ma l’uso del dialetto rappresenta il lato pittoresco della realtà: Si veda la maggior parte dei titoli di libri e poesie. E allora se noi andiamo a leggere quello che Chiefari ha scritto in poesia e in prosa, ci troviamo di fronte una gamma di contenuti che è rappresentazione degli aspetti più tipici e caratteristici di quella realtà che cadeva sotto gli occhi del disincantato poeta.
Nelle prose cosiddette creative scorre una vena di malinconia e i “fatti” sono sempre la rappresentazione di incapacità di affrontare la vita con atteggiamenti decisi, vincenti: Chiefari è il cantore dei perdenti, della mitezza d’animo, della gentilezza. Cantore d’un amore ingenuo e “platonico”; del sentimento logorato dal tarlo del dubbio di riuscire completamente nell’affermazione di quella che viene chiamata vita comune quotidiana; ha sfiorato con pudore i sentimenti forti, rimanendo al di qua di ogni caratterizzazione decisa; eternamente rammaricato: rimpianto d’un mondo che non esiste più, solfa ripetitiva in ogni epoca, occorre ammettere.
Nella sua poesia vi è la massiccia presenza di legami e affetti per il proprio paese e le sue tradizioni e luoghi mitici: U Cummentu de’ Salesiani, Torna, beddizza mia, A Suvaratu, Madonna Ndolurata, Vennari Santu, Caramanti, Suvaratu Superiori.
Tenue umorismo che traduce il tipico atteggiamento dell’uomo savio, che conosce la vita; sincero e pacato conservatorismo se mi è permessa l’espressione, che si spiega colla tipica concezione idillica; rimpianto del tempo antico patriarcale, sicchè le “storturi” di oggi inducono fatalmente a un certo moralismo di maniera: u mundu e mo’, a la luna, a libertà; nota malinconica, contenuta e struggente: A sirinata, Gnura; la giovinezza vista in una cornice di affetti e sentimenti non ripetibile; i sussulti del cuore in uno sfondo incantato di meraviglia.
Per quanto riguarda le strutture formali, Chiefari possiede una sua lingua che nonostante la vena colta (frutto della sua educazione letteraria) facilmente rintracciabile, ha un sapore squisitamente efficace nell’andamento narrativo e nelle dicotomie del dialogo.
Il suo tono popolaresco e dimesso conosce tutti i segreti e la duttilità del piano e suggestivo dialetto soveratano (o soveratese come si voglia). Si tratta, in ogni caso, di uno stile originale, arguto, di un lirismo schietto che formalizza situazioni e circostanze.
Questo tentativo di ritratto deve essere necessariamente completato da alcune informazioni al fine di avere le coordinate essenziali che possano raggiungere anche coloro che per le più varie ragioni ignorano l’ordito di fatti che hanno accompagnato il nostro poeta nell’ordine naturale delle cose strettamente legate alla sua attività e al suo riconoscimento extra moenia.
Perchè nonostante il carattere particolarmente riservato, senza clamori e senza autopromozioni spudorate, la sua poesia è arrivata in luoghi e persone lontane per la sua unica forza: la bellezza.
C’è da sottolineare una cosa, soprattutto per i giovani lettori de “La Radice” che per ragioni anagrafiche non possono nemmeno immaginare: la vita culturale dei tempi in cui visse e operò Chiefari è lontana anni luce rispetto alle possibilità di comunicazione attuali. Se, ai tempi, non si produceva autentica merce non si poteva sperare nel riconoscimento fuori delle mura di casa, e i rapporti si stabilivano entre confrères stabili e incrollabili. Oggi tutti possono assistere a spettacoli di reti nazionali e paesane di volgarità e mancanza di pudore senza limiti. Tutti sono: scrittori e giornalisti, scrittori e cantanti, scrittori e storici, scrittori e attori. Basta, mi posso fermare e tornare a quelle poche ma sostanziose circostanze che hanno illuminato la vita e l’arte di Chiefari.
Fu redattore di riviste letterarie, regionali e nazionali, ebbe molte benemerenze e riconoscimenti e fu socio di Accademie Nazionali e Internazionali. Ispettore onorario alle Antichità e Belle Arti, svolse una vasta attività giornalistica soprattutto letteraria. Ebbe rapporti costanti e onorevoli con esponenti della cultura calabrese soprattutto.
Vincitore di molti premi di poesia, è compreso nelle più autorevoli antologie di poesia dialettale calabrese e nazionale ed è citato molto favorevolmente nelle storie letterarie calabresi.
Desidero finire con un piccolo omaggio di affetto: anni fa qualche ora prima che partissi per Soverato mi ha telefonato un amico poeta calabrese, Dante Maffia, ma che abita a Roma da tanti anni ed è assai noto a livello nazionale e internazionale, e non ricordo precisamente per quale ragione ho nominato Chiefari. Di rimando lui: chi, l’autore di Pecchì non mi spusai? Pensa, continuò, fu il primo libretto di poesia dialettale che ho letto quando ero ancora ragazzo, e fu proprio il poemetto di Chiefari che mi spinse a coltivare anche in proprio la poesia dialettale.
Si prenda questo postumo omaggio l’amato poeta Chiefari, con tutto l’affetto e l’ammirazione d’una vita e il ringraziamento per averci dato autentica e nobile poesia.
Mi sia permesso ricordare almeno qualche titolo: Spiddussi (1928), Armatiti (1932), U Cantaturi (1934), Risi e chianti de nu strampalatu (1938), Canta ca ti passa (1948), Pecchì non mi spusai (1951), Passu cantando (1955), Cantu c’ancora pozzu (1958), Juriceddi di Turriti (1962), Storturi (1964).


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