Data: 31/12/2023 - Anno: 29 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Aveva appena ultimato gli studi programmati da sé, ed era rientrato nella sua Comunità, in una sana famiglia di un millenario paese appollaiato su un crinale prospiciente l’azzurro Ionio. Da giovine in qualche modo già arrivato, ha fin da subito ricevuto stimoli e inviti per dedicare le sue energie ad attività amministrative, sociali e politiche, conquistando in breve tempo la benevolenza e la stima della gente del suo paese, del mondo contadino e artigiano e della numerosa borghesia locale. Ma ciò non bastava al giovane Vittorio: avvertiva imperiosa l’esigenza di crescere, con nuovi e più ampi orizzonti che non riscontrava nei suoi coetanei, e in genere tra la gente pur attiva e dinamica con cui viveva. E con tale obiettivo cominciò a dedicarsi ad attività di Associazionismo e di Comunicazione attraverso mezzi d’informazione quali i giornali. Ma… non bastava per il nostro Vittorio, che non avvertiva la crescita che sperava. Si era nei primi anni Cinquanta, e quasi si sentiva ancora il rombo dei quadrimotori che bombardavano l’Italia, e si vedevano le macerie causate dalla guerra. Pur se tra tante difficoltà, però, l’Italia cominciava a risalire la china per venir fuori dal baratro in cui la terribile guerra l’aveva sprofondata. Una china che, però, nel profondo Sud della Penisola non era avvertibile, per cui non si creavano facilmente condizioni di risalita. In paese gli oggetti più commerciabili erano diventate le valige da riempire di cose comuni e sacre, e le note più sentite erano i pianti delle donne che accompagnavano alla partenza i propri mariti o i propri figli che emigravano per le Americhe, del Nord e del Sud, dove risiedevano i parenti emigrati prima della guerra e facevano “l’atto di richiamo”. I segni di un graduale processo di ripresa cominciavano ormai ad essere evidenti e palpabili, per cui anche Vittorio ha avvertito la dolorosa esigenza di abbandonare la propria terra per andare altrove, alla ricerca di condizioni di vita che l’aiutassero alla crescita umana, civica, sociale e culturale con orizzonti non più statici e limitati. Superato il primo dei concorsi per i quali aveva fatto domanda di partecipazione, raggiunse la sede indicata, lontana dal suo Sud, per la frequenza di un lungo complesso e faticoso corso di formazione. Poi l’assunzione, con l’assegnazione della sede di servizio. La città che l’accolse era a suo tempo a misura d’uomo. Non era una megalopoli e neanche un grosso paesone; una città di circa duecentomila anime, moderna, con struttura urbanistica lineare e funzionale, fiancheggiata per alcuni chilometri, quasi a braccetto, da un cristallino azzurro mare. Una città pulita e laboriosa, dotata di Università, Tribunale e numerose e altre strutture tipiche di un capoluogo di provincia del ventesimo secolo. Una città ricca di stimoli che avrebbero aiutato Vittorio a soddisfare la sete di conoscere operare e crescere nel corso di anni che si annunciavano importanti per la sua vita sociale e per una carriera di tutto rispetto nell’attività appena iniziata. Unico neo della ridente città che sarebbe diventata luogo di adozione di Vittorio, una sorta di gelosia nei confronti di chi arrivava da fuori per fermarsi, si era considerati quasi degli intrusi se non da evitare da osservare con prudente diffidenza. Vittorio, però, appena si rese conto di tale atteggiamento ostativo, reagì con la discreta cordialità che gli era congeniale, iniziando dai colleghi attraverso i quali sperava instaurare contatti con le loro famiglie per dare origine alle prime amicizie allargate. Nell’ambiente di lavoro, in particolare, sono state ben presto notate le sue qualità di disponibilità, correttezza, lealtà. Interessato da qualche tempo alla lingua Esperanto di cui aveva letto qualcosa, scrisse alla Federazione nazionale di Torino che lo mise in contatto telefonico con il Gruppo esperantista esistente in quella città. Ne nacquero nuove conoscenze, incontri, visite a Mostre, traduzioni di alcuni suoi scritti nella lingua del dottor Zamenof. In poco tempo Vittorio si ritrovò nel ruolo di organizzatore di piacevoli gite in luoghi turistici della regione, di cenette in ristoranti tipici sulla costa, e anche di serate danzanti nelle case di alcuni colleghi i cui genitori, ritrosi dapprima, hanno finito per accettare l’apertura della porta di casa senza più torcere il muso. Come spesso avviene tra i gruppi di giovani, col passare del tempo nacquero anche sentimenti che andavano al di là del rapporto amicale e di giovanile goliardìa. Tra le altre ragazze, ormai non soltanto esperantiste, c’era Grazia, slanciata e piacente, quasi una modella; e c’era Pippo, un giovine di media statura che veniva detto Alain Delon per le sue fattezze fisiche. Tra i due nacque l’amore. E con l’amore il desiderio di unirsi per sempre nel matrimonio, ché non erano quelli i tempi in cui il matrimonio poteva anche non esserci quando due persone volevano stare insieme. Il loro rapporto, e il loro desiderio fu, però, contrastato fin dalla nascita dai genitori di lei, per l’evidente atteggiamento vanaglorioso del giovane, e per la sua scarsa propensione al lavoro, secondo quanto era stato loro riferito da persona bene informata. Ma i due si volevano già un gran bene, per cui decisero di non tener conto del parere dei due anziani. E continuarono a incontrarsi in segreto, come, quando e dove potevano, intenzionati a superare quel contrasto che impediva loro di unirsi. Mancava poco all’ultimo giorno dell’anno, e Vittorio incontrò per caso Pippo in un bar del centro storico. “Dove la passate la notte di San Silvestro?”, domandò l’amico a Vittorio. E quello, che conosceva la loro storia, pur di evitare rapporti spiacevoli con la famiglia di Grazia, soprattutto con la sorella, e con il fratello, Alberto, elemento trainante della comitiva, che condivideva pienamente il parere negativo dei genitori rispose con una bugia: “Non lo abbiamo ancora deciso.”. Non se ne fece più parola, ma, come in precedenza convenuto, il gruppo trascorse la notte di San Silvestro danzando felicemente a casa di Fernando, uno degli amici. Mancavano pochi minuti alla mezzanotte, quando ecco presentarsi Pippo, con il solito sorriso accattivante, da tutti inaspettato. Chi aveva informato Pippo dell’incontro? Vittorio non ebbe dubbi: era stata Grazia. Ma neanche Alberto ebbe dubbi: era stato Vittorio, l’unico che continuava ad avere rapporti con Delon. Si stava ballando, guancia a guancia, sulle note de “Il cielo in una stanza”. Anche Pippo ballava, stretto amorevolmente a Grazia. In uno dei lenti giri nella non ampia camera, la coppia di Vittorio venne a trovarsi quasi a contatto con quella di Alberto che gli sparò in faccia “Questa carognata non me la dovevi fare!”. Vittorio ingoiò, muto, vittima soffrente di un’errata deduzione di un amico caro, al quale non rivelò la verità, né in quel momento né mai più. Per non essere causa di guerra in una famiglia che stimava e rispettava. Alberto e Vittorio non s’incontrarono più. Quaranta anni dopo, Vittorio, ormai rientrato nel paesino che una volta gli andava stretto, compose da casa il numero telefonico di Alberto, non per raccontargli la verità e scrollarsi di dosso l’immeritata ancora pesante “carognata”, ma per sentire la voce di un caro amico di gioventù, e tentare di ricreare un’amicizia repressa ma non scomparsa. Dall’altro capo del telefono una voce femminile e stanca rispose dicendo che Alberto era passato a miglior vita da lunghi anni.
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