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Autore:Vincenzo Squillacioti     Data: 30/04/2019  
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Data: 30/06/2006 - Anno: 12 - Numero: 2 - Pagina: 38 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

“U LAVATU”

Letture: 1234               AUTORE: Caterina Guarna (Altri articoli dell'autore)        

Se lo passavano di casa in casa le donne della “ruga” .
“U lavàtu” era un impasto di pasta acida che l’ultima che aveva fatto il pane conservava in un piccolo recipiente di terracotta, dai bordi molto alti. Era la base da cui si partiva per fare il primo impasto che la sera prima si preparava, e si lasciava poi tutta la notte a lievitare. Poi al mattino si versava nella “majhr!a”, aggiungendo ancora via via farina e acqua e le mani veloci, a pugno, mescolavano, battevano, rigiravano la pasta morbida che man mano cresceva. Quindi si preparavano le forme di pane che si lasciavano ancora a lievitare nelle “cernìgghje”, sotto una coperta. E intanto si accendeva il fuoco nel “cocipàna”, che non mancava quasi in nessuna casa, e in cui la legna ardeva, fino a far diventare bianca la volta.
Era il momento di infornare. Dopo un’ora il profumo di pane fresco e fragrante si diffondeva per la casa e per tutta la “ruga”. Le grandi forme venivano estratte dal forno e conservate e duravano giorni e giorni. Una di esse veniva aperta subito per fare “u pagnàccu”, da mangiare subito, con un misto di olive, alici sott’olio, pomodori e origano, la versione paesana della pizza, dal sapore squisito.
Poi era il momento di infornare “i curuhr!èhr!i”, delizia di noi bambini.
Questo, come tanti altri, era compito esclusivo delle donne, infaticabili e insostituibili pilastri dell’economia familiare: bisognerà pur scriverlo una volta o l’altra un libro dedicato alle fatiche delle donne che tra un parto e l’altro andavano e venivano dalla campagna trasportando gli enormi “gistùni” sul capo, si recavano alla fiumara a lavare i panni, tessevano, preparavano tutte le provviste da conservare per l’inverno e per i tempi più magri.
Ricordando questo rito legato alla mia infanzia ho voluto riprendere a fare il pane a casa mia, in Toscana, come lo facevano la nonna e le zie, perchè questa sapienza antica non si perdesse e per tramandarla alle figlie e alle nipoti: mi sono procurata “u lav`88tu” che ora, in mancanza di vicine con cui scambiarlo, conservo in frigorifero rinnovandolo ogni volta che faccio il pane secondo l’usanza della nonna e quando le grandi forme escono fragranti dal forno fatto costruire apposta in giardino, il suo profumo mi riporta alla mia infanzia.

(1) E perchè no?! L’amica professoressa Caterina Guarna lo scriva, il libro, e “La Radice” ne programmerà la pubblicazione (ndd).


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