Data: 30/04/2019 - Anno: 25 - Numero: 1 - Pagina: 24 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
“CU’ TRENTA CARRINI” Il canto popolare che più sa parlare al cuore dei Calabresi |
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AUTORE: Silvestro Bressi (Altri articoli dell'autore)
Il canto popolare calabrese più cantato nel mondo, ancor di più della Calabrisella, è “Stornelli calabresi” noto con il suo capoverso Cu’ trenta carrini. Tale canto, che esprime la delusione per il crollo di un rapporto sentimentale costruito con non poca fatica, lo recupera Otello Profazio e lo rende popolare incidendolo su disco nel 1952. La prima traccia degli “Stornelli calabresi” la troviamo sulla rivista di letteratura popolare La Calabria, del 15 settembre 1893, che la pubblica tra i canti popolari di Rossano. Ecco il testo così come riportato a pagina 4 del mensile stampato a Monteleone: Misi cent’anni a fari nu casteḍḍu, / Crirennu ch’era r’iu lu castellanu, ma doppu ch’era fattu tantu beḍḍu, / si spersiru li chiavi re li mani. Restai comu pitturu senza pinneḍḍu, / e comu cacciaturu senz’armi in manu. Nun si po’ favricari senza liveḍḍu / e mancu fari l’amuru da luntanu. Tale canto lo ritroviamo a Badolato (qui lo ascoltai dalla voce del sarto-mandolinista Cecé Ermocida), a Catanzaro, a Nicastro e in tanti altri centri della Regione seppur con varianti. Del resto è risaputo che i canti tramandati oralmente molto spesso subiscono trasformazioni sia di testi sia di stile. Va ricordato inoltre che i canti popolari, ossia anonimi, sono tali non perché si è persa traccia del nome dell’autore, ma perché sono il risultato di molteplici operazioni individualistiche, che, nel far proprio il canto e nel rielaborarlo, si sommano e si intersecano continuamente. Gli “Stornelli calabresi”, pur avendo trovato immediato consenso a livello popolare spandendosi a macchia d’olio in tutta la regione e tra i nostri corregionali residenti all’estero, non hanno trovato ampio spazio nei repertori dei gruppi folkloristici e di quelli etnici. Recentemente sono stati invece inseriti nei repertori di svariati cantanti popolari che puntualmente attingono dall’ampio e variegato archivio dell’inimitabile Otello Profazio. Ecco il testo degli Stornelli calabresi recuperato e rielaborato dal “mastru cantaturi”: 1 - E cu trenta carrini mi ccattai na vigna mi la ccattai supra a na muntagna cu’ si sciuppau lu graspu e cui la pigna povera vigna mia cu si la mangia. 2 - Stentai tantu pe’ far’un castellu cridendu ca era ieu lu castellanu ma doppu fattu priziusu e bellu li chiavi mi fuiru di li mani. 3 - Restai comu un pitturi senza pinnellu comu a nu cacciaturi senz’arma a manu. E non si poti fabbricari senza livellu mancu fari l’amuri di luntanu. 4 - Ah quantu è bellu l’amuri vicina si non la vidi la senti cantari, la senti quandu chjama li jaḍḍhini “veni piruzza mia veni a mangiari”. 5 - Quantu cu nu suspireḍḍhu chi jettai a la finestra si ffacciaru dui una mi dissi “bellu, cca chi fai”? L’attra mi dissi ‘’nchiana cca ‘ndi nui”. 6 - Dicitimi aund’è lu tribunali aundi si fannu li causi d’amuri ca sta figghjola l’hannu a cundannari ca jiu dicendu ca cchju non mi voli. 7 - Mo è carceratu e la notti si sonna ca a libertà nci dezi la cundanna. Hannu ‘a passari ’sti vintinov’anni undici misi e vintinovi jorna. A leggere con attenzione il testo di questo melanconico canto d’amore si ha l’impressione che si tratti di una rapsodia, una raccolta di strofe attinte da vari testi. Cu trenta carrini è diffuso, con diverse varianti, nell’Italia meridionale e centrale, anche se le versioni raccolte fuori dalla nostra Regione si limitano alle sole due prime strofe del testo calabrese. Di Trenta carrini parla Giuseppe Vettori nel suo studio su canti e poesie popolari, lo riporta anche l’LP Italia 3, sotto il titolo di Stornelli, nella versione raccolta tra il 1965 e il 1966 dal ricercatore Roberto Leydi e da Nicola Jobbi, il prete pioniere della ricerca antropologica ed etnomusicologica in Abruzzo, rispettivamente a Cerqueto di Fano Adriano e a Cesacatina, entrambe in Provincia di Teramo. Sempre nel 1965 il canto appare in versione romanesca sotto il titolo A tocchi a tocchi nel LP della cantautrice Maria Monti intitolato Canzoni popolari italiane. Nel 1970 gli “Stornelli calabresi” diventano un canto politico.
Cu trenta carrini mi ccattai ’na vigna mi la ccattai su pe ’na muntagna cu’ si sciuppò lu graspu e cui la vigna povera vigna mia, lavora e mangia. (povera vita mia, lavora e mangia) Tantai tantu pe’ fari un castello credendu ch’era ieu lu castellanu ma dopo fatto priziusu e bellu li chiavi mi spariru, bella, de li mani.
(Con trenta carlini mi comprai una vigna, me la comprai sopra una montagna. Chi mi portò via il grappolo e chi la vigna: povera vigna mia, lavora e mangia. Ho impiegato tanto per fare un castello, credendo di essere io il castellano; ma dopo fatto prezioso e bello, le chiavi mi sparirono, bella, dalle mani.) Questo testo fu registrato a Roma dal ricercatore Alessandro Portelli. A cantarlo era l’operaio edile Giuseppe D’Agostino, originario di Polistena, durante l’occupazione di Piazza del Campidoglio da parte di un gruppo di baraccati allontanati dalla polizia dalle case di Via della Serpentara, occupate abusivamente. Detta versione si può ascoltare nel LP Roma La borgata e la lotta per la casa, a cura di Alessandro Portelli. Il gruppo folklorico “Il Canzoniere del Lazio”, in auge negli anni Settanta, nella raccolta Quando nascesti tune, del 1973, la fuse con altri stornelli improvvisati raccolti dal Portelli nel corso della stessa manifestazione e la intitolò “Cu’ trenta carrini: tarantella dei baraccati”. Nel 2011 il giovane americano David Marker, che segue la scia del cacciatore di suoni Alan Lomax, lo registra dalla voce di un’anziana in Provincia di Salerno e precisamente a San Gregorio Magno. La versione di Otello Profazio propone, dopo le prime due strofe, versi apparentemente “estranei”, non molto connessi a quelli precedenti. La quinta strofa la troviamo in un altro canto popolare e a tal proposito riporto la versione catanzarese appresa da mio nonno Eugenio Nisticò (1896-1984): Nu jornu caminandu, caminai / de na finestra nd’affacciaru dui, la randiceḍḍha era beḍḍha assai / la menzaneḍḍha nu puntu de cchjùi… Dall’invito a salire in casa della quinta strofa si passa alla ricerca del tribunale della sesta. Salti lunghi quelli dell’autore, ma con ottime cuciture. C’è poi la strofa finale: Dovranno pur passare questi ventinove anni, undici mesi e ventinove giorni. Questi versi li ritroviamo nel canto tradizionale Buttana di to mà, del repertorio della cantastorie siciliana Rosa Balestrieri. Difficile, se non impossibile, stabilire, così come per le strofe precedenti, quale testo dei due attinge dall’altro. Non necessariamente si deve trattare di copiatura ma di due invenzioni, create in luoghi diversi, di fronte a due situazioni similari. Altra considerazione. Se pensiamo che l’essere umano è dotato più di memoria che di immaginazione, può succedere che quando crede di inventare non fa altro che ricordare. Per quanto possa risultare significativa la presenza del canto in varie regioni, la Calabria non può non essere considerata il centro di propagazione per merito, oltre che per l’armoniosa bellezza del canto, di Otello Profazio e della sua melanconica voce, capace di trasmettere quelle emozioni che rendono detto canto il “numero uno” fra i tanti della nostra regione. Un canto popolare che sa parlare al cuore dei Calabresi i quali s’immedesimano nella sventura di quel pover’uomo che si vede privare del suo castello che, a bocca amara, ora scorge in mano ad altri. Silvestro Bressi |