Data: 31/03/2005 - Anno: 11 - Numero: 1 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Franciscu da Gurpi era nato a Badolato dove era conosciuto ed apprezzato perché robusto, laborioso ed onesto contadino, come d’altronde non pochi Badolatesi sino alla metà del secolo ventesimo. In paese, inoltre, era tra i più sicuri guardiani di uve, e grandi e piccoli proprietari terrieri facevano a gara nell’affidargli in agosto i propri vigneti. Ancor prima che raggiungesse il ventesimo anno di età era già considerato il migliore partito per centinaia di belle contadine da marito, e non poche erano le sartine che gli lanciavano sguardi furtivi e proibiti in occasione delle numerose processioni religiose. Ma Franciscu s’innamorò a prima vista d’una ragazza iscana incontrata per caso alla Sanità l’ultima domenica di agosto, durante i festeggiamenti in onore della Madonna alla quale ogni anno accorrevano, per l’occasione, quasi tutti i Badolatesi e tantissima gente di Isca. Teresina era arrivata al santuario al mattino di buon’ora, in compagnia della madre e del fratello maggiore che portava alla fiera una ventina di maialini da vendere. Franciscu si spostava nel piazzale con l’intento di avvistare in qualche angolo don Andrea Saraco da cui comprare il gelato, fatto sul posto, il secondo dell’anno dopo quello che puntualmente gustava il quindici agosto all’Immacolata, non contando, naturalmente, le poche altre volte in cui la madre preparava in casa la neve col mostocotto. Teresina era ferma ad ammirare i mastazzòla da Serra dalle stravaganti forme di cuore, di matassàru, di angelo… Il corpo di fresca ventenne era incorniciato dal vestito tradizionale che numerose donne di Isca hanno indossato sino ad oltre la metà del secolo. E non aveva il gozzo, non poi tanto raro tra le Iscane, mentre i denti già cominciavano a tingersi di ruggine. Particolare che sfuggì completamente al giovane guardiano, che restò colpito dal suo viso d’angelo e dalla sua snella figura. Dimenticò il gelato e la seguì, a distanza, per il resto della giornata, sino all’ora in cui il fratello, avendo venduto tutti i porcellini, si unì a lei e alla madre per fare ritorno al paese, lungo il viottolo che scendeva a valle, sino a Zimotà, per poi risalire sino all’abitato. Il giovine, deciso ormai a portare all’altare la bella iscana di cui ancora non conosceva neanche il nome, chiese informazioni ad un amico del paese vicino, presente anche lui alla fiera per vendere gassose. Fu così che la domenica successiva, ottenuto il consenso dei propri genitori che in settimana avevano assunto anche loro informazioni sulla famiglia della ragazza, Franciscu pregò Maria l’Ischitàna, sposata a Badolato, di chiedere ufficialmente la mano ai genitori di lei. Abitando in due paesi diversi anche se vicini, l’anno di fidanzamento fu piuttosto lungo per i giovani fidanzati: niente incontro a cena ogni sera, niente serenate saltuarie, niente visite furtive, niente lavori in comune nei campi, niente incontri occasionali. Solo la domenica il giovine poteva arrivare a Isca, e quasi correva per perdere quanto meno tempo possibile di viaggio. Ed anche al ritorno correva, per non arrivare a casa a notte fonda. Si sposarono nella chiesa di San Marziale l’anno successivo, a vinicòttu novu, e Francesco mise su casa al paese della moglie, decisa a restare accanto alla madre cui nel frattempo era morto il marito stroncato da un infarto. Ma non fu facile la vita per la giovane coppia, nonostante lo sposo fosse ammirato e stimato per le sue doti fisiche e per la determinatezza di cui dava prova nelle sia pur rare occasioni. Le difficoltà furono soprattutto di tipo economico perché il giovine non trovava facilmente lavoro. Le terre della famiglia della moglie non erano sufficienti, da sole, a produrre anche per il sostentamento di una nuova famiglia; né Francesco veniva spesso richiesto per la giornata nei campi altrui, perché, in verità, non era proprio un bravo contadino. Il suo mestiere era il guardiano, ma ad Isca i terreni coltivati a vigna erano piuttosto pochi, in quanto gli Iscani, a differenza dei Badolatesi, consumavano poco vino e facevano invece molto uso di anice. Né si avvertiva, in genere, l’esigenza di guardianìa nei campi, perché rari erano i furti di prodotti agricoli. Il giovine già pensava di fare ritorno a Badolato, con la moglie, quando la fortuna gli venne incontro. Una domenica venne avvicinato da don Vincenzino, un ricco borghese della zona, che gli propose un dignitoso posto di salariato fisso nell’azienda agricola della baronessa Scoppa, nel vicino paese di Sant’Andrea. Avrebbe dovuto sostituire l’uomo di fiducia di quell’azienda, ormai tanto vecchio da non poter più lavorare. Francesco accettò l’offerta ad occhi chiusi, e nel giro di pochi giorni si trasferì con la sua Teresina nella villa baronale con l’incarico principale di badare al grande fabbricato e di fare il guardiano della vasta pertinenza agricola, curando anche l’organizzazione del lavoro e la custodia dei prodotti. Andò tutto per il verso giusto sino al giorno in cui, di notte, vennero rubati nei pressi della villa tutti i fichi secchi ch’erano stati messi al sole per l’essiccagione, onde farne schjocchi e crucétti con l’anice, cui la baronessa teneva tanto perché soleva farne dono ai numerosi amici della capitale, dove risiedeva per buona parte dell’anno. Il nostro giovane guardiano avvertì il colpo nel modo peggiore, perché non gli era mai capitato che venisse rubato quanto era sotto la sua custodia. Conversando con alcuni braccianti agricoli dell’azienda appurò che anche negli anni precedenti quel tipo di furto si soleva verificare, e talvolta veniva ripetuto nello stesso anno. I ladri, che erano evidentemente informati delle attività all’interno dell’azienda, aspettavano che i frutti fossero già secchi sul canniccio e li portavano via, sempre di notte, uno o due giorni prima che venissero tolti dal sole e deposti in magazzino. Perse quasi il sonno il nostro guardiano, ma alla fine ideò un piano che non partecipò neanche alla moglie. Quando mancavano pochi giorni alla completa essiccagione del successivo raccolto di fichi, disse una sera alla moglie che avrebbe fatto un lungo giro d’ispezione per la terra e che sarebbe rientrato a casa piuttosto tardi. Si recò, invece, al canniccio e con zappa e pala praticò a ridosso una profonda buca lavorando sodo sino all’alba. Poi riversò il terreno rimosso nella scarpata lì nei pressi e coprì la buca con la maestria che gli aveva insegnato suo padre fin da bambino: nessuno si sarebbe accorto della trappola. Il giorno seguente organizzò le attività dei lavoranti in modo che nessuno di loro avesse l’occasione di avvicinarsi alla zona dei fichi, e nel pomeriggio si permise qualche ora di riposo, dicendo alla moglie che anche quella notte sarebbe uscito in perlustrazione. La luna piena illuminava la terra quasi a giorno. Franciscu da Gurpi, acquattato dietro il grosso tronco della grande quercia, aspettava nel silenzio rotto soltanto dai battiti del suo cuore. Ed ecco due persone, un uomo e una donna, a volto scoperto, percorrere con passo circospetto il viottolo obbligato che portava al canniccio. Ognuno dei due aveva in mano un sacco per trasferirvi i fichi secchi della baronessa. Giunti a toccare il canniccio con le mani si aprì la botola e vi caddero paurosamente dentro. Senza dar loro neanche il tempo di cominciare a pensare in qualche modo alla risalita, Franciscu fu loro sopra e li freddò col fucile caricato a pallettoni. Non si preoccupò di guardarli in faccia per conoscerli, ma si mise a lavorare di buona lena per coprire la tomba. Quando rientrò in casa, la moglie, sveglia e impaurita, gli chiese il perché del suo lungo ritardo nei campi e se aveva sentito anche lui i due colpi di fucile. Il guardiano non le rispose, ma disse semplicemente che i ladri non sarebbero mai più tornati a rubare i fichi. E la costrinse a giurare il silenzio sino alla morte.
***** Franciscu da Gurpi visse quasi cent’anni e non disse mai ad anima viva che in un angolo di quell’azienda c’era una tomba con due persone. La buona Teresina lo rivelò soltanto al confessore al momento dell’Estrema Unzione. |