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Data: 31/03/2005 - Anno: 11 - Numero: 1 - Pagina: 6 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

QUALCHE GRECO E QUALCHE ROMANO TRA DI NOI

Letture: 1047               AUTORE: Ulderico Nisticò (Altri articoli dell'autore)        

Quando trattiamo di storia calabrese, è più facile che parliamo al plurale -gli Enotri, i Greci, i Bruzi, i Romani, i Normanni...- che al singolare, cioè che possiamo fare dei nomi propri di singole persone. Vediamo cosa possiamo reperire svolazzando tra le carte di un dì.
Italo, siculo o enotrio che fosse, regnò sull’Istmo. Forse non esistette mai, però almeno ci ha lasciato il suo nome, esteso poi a tutta la nostra patria.
L’altro che un nome ce l’ha è Menesteo, re di Atene e fondatore di Scillezio. Di lui sappiamo che fu in contrasto con Teseo, e quando questi morì, regnò e partecipò alla guerra di Troia. Non era tra gli eroi maggiori; compare poche volte, e il suo fedele compagno Stichio viene ucciso da Ettore. Finita la guerra, navigò fino in Libia, quindi fondò Scillezio.
Molti secoli dopo Cassiodoro chiamò fondatore della sua patria Ulisse; ed è un ben noto nome.
Caulonia ebbe delle regine di nome Clete. L’ultima venne sconfitta dai Crotoniati, e morì in battaglia.
Compaiono nel fatale 388 due siracusani, Dionisio ed Eloride, mortali nemici. Il secondo, esule a Crotone, comandò maldestramente l’esercito di questa città nella battaglia dell’Elleporo, che noi poniamo lungo un fiume tra le attuali Monasterace e Soverato.
Era di Caulonia quel Dicone di Callimbroto, atleta di successo (cinque vittorie per la corsa nei giochi Pitici, tre negli Istmici, quattro a Nemea, e ad Olimpia una tra i fanciulli, altre due tra gli uomini; e si dedicò perciò in Olimpia 14 statue), che però si dichiarò siracusano per denaro: una campagna acquisti di sportivi, pratica destinata a lungo avvenire.
Nessun nome di cittadino della greca Scillezio è giunto fino a noi. Ci è più prodiga di notizie di sé la sua erede, la romana Scolacio, della quale possiamo leggere epigrafi con dei nomi.
Fu forse uno schiavo liberato quel Gavio che dedicò un’iscrizione, probabilmente una statua, nel teatro, alla dea Fortuna. E ne aveva ben donde, prima schiavo, poi ricco cittadino. Era questa la Fortuna per i Latini: il cieco caso, nelle cui mani sono tutti gli uomini. Ma non ebbe fortuna buona l’iscrizione, che decenni dopo finì adoperata come materiale da costruzione, e tagliata a metà.
L’avara terra di Scolacio, per altro così poco studiata, ci ha restituito altri nomi: un’iscrizione lacunosa ci testimonia che un Pat[]us, forse Patulcius, dedicò la scena del teatro.
Un Elpidio, nome latino di origine greca (elpìs significa speranza) costruì una tomba per il figlio Elpidiano, morto ventunenne, e la destinò anche a se stesso.
Una lapide ricorda anche Attia Servanda, che morì di venticinque anni.
Non venne mai, credo, a Scolacio, ma la beneficò di un acquedotto l’imperatore Antonino Pio, il quale regnò dal 138 al 161.
Restano da ricordare Cassiodoro e i suoi monaci e studiosi e amanuensi. Ma forse è bene che se ne parli in un articolo tutto per loro.
Citiamo qui solo quel che accadde allo “spettabile” Ninfadio, il quale, a detta di Cassiodoro che se ne stupisce, venne rapinato nei dintorni di Scolacio.


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