Data: 30/06/2022 - Anno: 28 - Numero: 1 - Pagina: 29 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
UNA NOTTE AL RIFUGIO C’è chi sostiene, tra i pensanti di questo strano mondo, che la guerra, il conflitto, la lite, il dispotismo, la sopraffazione, il pianto, il dolore, la tragedia… sono caratteristiche fondanti della natura, non solo umana, ma anche degli altri animali e delle piante. Così come, si sostiene dagli stessi pensanti, lo sono la pace, l’amore, la concordia, l’amicizia, l’ospitalità, l’accoglienza… Due complesse facce, insomma, della stessa realtà. Tali sino al punto che la vita stessa -il positivo- non potrebbe esistere senza la morte. Un paradosso?! Esistono, pertanto, naturalmente, in questo strano mondo, gli uccelli rapaci e l’ingenuo pettirosso, i santi e i criminali. Naturalmente. I gruppi di esseri umani, e anche di animali e di piante, fin dai primordi si organizzano, e magari legiferano, per ridurre il più possibile lo spazio di ciò che sinteticamente viene definito Male, per fare imperare il Bene. Astruseria o elucubrazione, fermo convincimento o consolidato credo, in questi giorni vi si associa con prepotenza, senza alcuna pretesa di valore di verifica, il martellante pensiero di que sta ultima guerra in Ucraina e in tutto il pianeta, che vive con tragica paura il conflitto al quale non aggiungiamo alcun aggettivo, del quale non scriveremo nulla, perché non spetta a noi, perché non vogliamo, perché sarebbe inutile. Confessiamo, invece, che quanto sentiamo e vediamo per televisione ha fatto fare a chi firma questo articolo Segue da pag. 29 un salto nel passato, riportandolo con la memoria al 1943, quando un altro terribile conflitto coinvolgeva in modo diretto anche la nostra Calabria, rimasta, in quanto zona periferica d’Italia e del Continente, in qualche modo al margine del disastro. È pur vero, però, che se pur relativamente pochi sono stati i morti sotto le macerie o squarciati dalle bombe, e se pure non c’era il terrore per la bomba atomica, la guerra è passata anche per le nostre strade (9 settembre 1943), ha navigato fin dall’inizio nei nostri mari (10 luglio 19409, ha volato per anni nel nostro cielo stellato. Di notte, soprattutto, si aveva la piena consapevolezza della gravità del conflitto, quando, senza preavviso di lugubre suono di sirene, si sentiva all’improvviso il minaccioso rombo dei quadrimotori, e si balzava dal letto per cercare rifugio fuori casa, non nelle gallerie delle metropolitane che da noi non c’erano, non nelle gallerie delle ferrovie, ma nella grotta della roccia scavata per costruirvi sopra la casa, nel catòiu, nella stalla, in un locale dove il crollo dei muri fosse meno probabile. Talvolta si correva fuori paese, nell’aperta campagna, dove non c’erano case né luci che fossero avvistate dagli aerei nemici che volavano sulle nostre teste. Nella primavera del 1943, quando il conflitto s’era fatto più pericoloso e più cruento, quasi tutte le famiglie di Badolato hanno abbandonato le proprie case e si sono trasferite nelle centinaia di case rurali di proprietà o di parenti o di amici, sparse per le campagne. In quei mesi di “sfollamento” nelle zone collinari v’era un incessante brulichio, come un attivo formicaio in cui si operava, per il presente e per l’incerto futuro. C’erano nei “casini” anche i padroni dei terreni più estesi, non certo a lavorare, ma a stare al sicuro e controllare. E c’era qualche prete, a dir Messa ogni giorno per la gente delle casette vicine, con altari improvvisati, e a coordinare le preghiere degli oranti a sera, e pure a battezzare qualche neonato. Intanto si produceva curando le piante e realizzando ortaggi dove c’era l’acqua di sorgente che veniva raccolta nelle vasche per l’irrigazione, con il vantaggio, persino, di aumentare il numero delle ore di lavoro, risparmiando del tempo prezioso al mattino per raggiungere a piedi da casa il terreno e a sera per farvi ritorno. Tante cose mancavano, in verità, costretti a vivere notte e giorno in locali quasi tutti costruiti al solo scopo di rifugio per la pioggia, per depositi di attrezzi agricoli, più di uno con palmento per vinificare, quasi tutti di una sola stanza, senza acqua se non quella che si attingeva a una sorgente non sempre vicina; senza bagno, con illuminazione a cera, a petrolio, a legna. Tuttavia enorme era la differenza con chi in questo periodo sta nascondendosi o sta scappando dall’Ucraina; ed anche notevole la differenza che avremmo avuto l’anno successivo (1944) con gli sfollati di Cassino, numerosi anche in Badolato, che scappavano dalla guerra, dalle bombe, dalle case distrutte per sempre. Saltuariamente qualcuno della famiglia scendeva in paese, per verificare se la casa era ancora chiusa o con la porta aperta perché capitava talvolta che ladruncoli approfittassero per prelevare olio, vino, capicolli, soppressate, in mancanza di denaro e di gioielli che certamente mancavano. Ritiravano vestiario e altro all’occorrenza e si recavano al negozio di alimentari, di don Ciccio Pultrone soprattutto, il più grande e il più fornito, per acquistare quel poco che la legge consentiva “ La Radice” - Anno XXVIII - N. 1 - 30.06.2022 AVVENNE A BADOLATO 31 presentando la “carta annonaria”. Il contadino che aveva da coltivare anche terreni nella marina era costretto a scendere di tanto in tanto, limitandosi a fare il solo necessario e tornare frettolosamente al rifugio collinare, perché lungo la costa sfrecciavano a bassa quota gli aerei “a due code” per mitragliare i treni che vi transitavano, o per incendiar e i cumuli di carbone depositati nelle stazioni ferroviarie. E poi, nelle zone pianeggianti e irrigue ronzavano milioni di zanzare che procuravano la perniciosa malaria. Mi racconta un contadino del tempo, oggi di novanta anni inoltrati, che, quando il turno per irrigare toccava di notte, riposavano in un “lettone” realizzato per quattro persone sopra una pianta di ulivo, per non essere raggiunti dalle zanzare che amano volare piuttosto in basso, a contatto con l’erba bagnata. Talvolta, scendendo in paese per un qualche motivo, si rimaneva a casa qualche giorno o più, e capitava che fosse necessario scappare al rifugio in piena notte, al terribile rombo di aerei certamente nemici, ché gli aerei di casa nostra erano e servivano altrove, dove la guerra sconvolgeva veramente La mia famiglia, genitori e cinque figli, il più piccolo di sette anni, eravamo rifugiati a Doga, una località boschiva di montagna. Alloggiavamo in una baracca di legno assegnata a mio padre che era il “controllore”, per conto del Comune, del carbone che veniva prodotto dalle tante carbonaie realizzate con il legno dell’esteso bosco pubblico. Un giorno scendemmo anche noi in paese, percorrendo piuttosto facilmente la tortuosa via mulattiera che dai mille metri di altitudine arrivava diritta ai duecentocinquanta del centro abitato. Vi rimanemmo l’intera giornata e anche la notte, con l’intento di ripartire per Doga il mattino successivo. Ma, durante la notte, ecco il “disgraziato” rombo dell’aereo nemico: vestiti alla meno peggio scappammo al piano sottostante, dentro la bottega di un barillaio, nella convinzione che, trattandosi di una sorta di grotta scavata nello scoglio (la roccia, degradata) si stesse al sicuro. Stemmo lì, svegli sino all’alba, senza panico ma piuttosto sereni. Ovviamente senza alcuna luce, neanche per guardarci l’un l’altro. All’alba, mettendo le mani tra gli attrezzi di lavoro, toccai un oggetto, e m’accorsi che si trattava di un temperino, con il manico di legno, e lo misi, senza far parola, nella tasca dei miei pantaloni da bambino non ancora decenne. Di buon’ora ripartimmo per la montagna, e vi rimanemmo sino al giorno in cui arrivò anche lassù l’eco delle campane che suonavano a festa perché la guerra era finita. Era l’8 settembre. La guerra l’avremmo avuta addosso tragicamente ancora per un anno e otto mesi, compresa la tragedia di Montecassino e la strenua Resistenza. Ma l’armistizio non era certo poco, specialmente per noi che in quell’occasione e in non numerose altre siamo stati avvantaggiati dall’essere la parte terminale dello Stivale, periferia nazionale, e continentale. Dal primo ottobre a scuola, con Cuore come libro di lettura. Nel pomeriggio, per noi bambini, i pochi impegni di famiglia, i compiti di scuola per l’indomani e poi gl’innocenti svaghi negli utili slarghi delle rughe del paese. Ed ecco un giorno di quelli saltar fuori il temperino “rubato” la notte di qualche mese prima nella bottega di mastro Mico. Per costruire un carìci (giocattolo costruito dagli stessi bambini), bisognava sagomare in modo opportuno un frammento di pelle di capra, che io appoggiai sul ginocchio e cominciai a tagliare senza pensare che sotto la pelle c’era la stoffa dei pantaloni e poi il nudo ginocchio: il sangue che ne è sgorgato lo fermai con un fazzoletto che in tasca non mi è mai mancato, e nascosi, finché fu possibile, l’accaduto ai miei genitori. La traccia di quella ferita è ancora visibile sul mio ginocchio, e ancora oggi al vederla scatta il ricordo del rombo delle fortezze volanti, dei rifugi d’emergenza senza luce, né bagno, né acqua,… Il ricordo di quella guerra. Delle tante guerre che ci sono state e che ancora oggi sono numerose sul pianèta. La tristezza per la guerra attuale in Europa, che per tanti versi può dirsi mondiale. E la rabbia al pensiero che circa otto miliardi di esseri umani non riusciamo a trovare un mezzo legale per fermare, bloccare, paralizzare -non voglio usare verbi d’altro tono- chi è causa di guerra, cioè di sciagura e di morte. |