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Data: 31/12/2007 - Anno: 13 - Numero: 4 - Pagina: 31 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

PRIMA NATÀLA NÉ FRIDDU NÉ FAMMI, DOPPU NATÀLA FRIDDU E FAMMI.

Letture: 1090               AUTORE: Giovanna Durante (Altri articoli dell'autore)        

Il Natale è sempre stato una festività importante, molto sentita, vissuta con più o meno spiritualità ma sempre con partecipazione e gioia da adulti e bambini.
Un tempo, tutti i giorni della novena natalizia si andava in chiesa all'alba per assistere alla funzione religiosa fatta di canti e preghiere da parte dei numerosi fedeli presenti; ciò rappresentava una festa di per sé, resa più suggestiva dalle zampogne che, con il loro suono stridulo ed insieme melodioso contribuivano a creare un'atmosfera struggente, quasi magica pur nella sua sacralità. In questo clima la gente del paese si preparava a festeggiare la discesa dal Cielo del bambino Gesù. Misterioso dono d'amore per il riscatto dell'uomo.
Oggi il motivo di tanti festeggiamenti è lo stesso di sempre, cambia solo lo scenario. Quello dei nostri padri non era certo il mondo del consumismo, dell'edonismo, dei soldi, della smodatezza: niente corsa ai regali, niente spumante, torrone e panettoni di vario tipo, niente alberi splendenti di luci e di meravigliosi addobbi. Era il Natale della grotta, non quello dei centri commerciali. Un presepe, quasi sempre ridotto all'essenziale, veniva allestito con amore e devozione in ogni famiglia: un mucchietto di case di cartone, qualche pastorello di creta ed una capanna inserita nel bel mezzo di un paesaggio rupestre dove, oltre ai personaggi tradizionali, spiccavano dei rametti frondosi da cui faceva capolino, rosseggiando, qualche arancia. Malgrado le ristrettezze economiche si voleva festeggiare alla meglio un evento considerato mirabile, il più grande e sacro dell'anno; perciò si badava a conservare, sin dall'estate e più ancora sin dall'autunno precedente i prodotti dei campi, in modo da far fronte alla cena della Vigilia quando era usanza porre in tavola le cosiddette "trìdaci cosi" (in alcuni paesi calabri, nove), ossia tredici portate. In quella sera la famiglia patriarcale si radunava in casa per aspettare la nascita di Gesù, mentre al focolare un grosso ceppo ardeva sino alla mezzanotte.
Era veramente un'impresa reperire tanta varietà di cibo per la maggior parte delle famiglie che un tempo vivevano molto modestamente e soltanto del lavoro delle braccia; perciò, sul finire dell'estate si preparavano i "pistùni", grappoli di pomodorini che venivano appesi alle travi del "salàru", mentre al muro esterno del balcone di ogni abitazione, possibilmente lato nord, pendevano mazzolini di sorbe, nascoste tra le loro stesse foglie, in attesa di maturazione; anche i "pumicèhri", cioè le meline, pendevano sostenute da una capiente retina, così come i "granàti" che facevano bella mostra di sé. Infilzate ad un chiodo conficcato al muro era facile vedere anche "pittèhri 'e ficandianàri", ossia le pale del fico d'India, opportunamente dimezzate, con i "ficandiàni", ossia i frutti spinosi, ancora attaccati. Anche le melanzane "ncugnettàti", ossia in salamoia, i "pumadòra russi", essiccati al sole, e le olive verdi, "allìvi 'e giarra", e quelle nere, "cretti o mpurnàti", servivano ad arricchire la cena natalizia, così come le castagne, infornate, essiccate o conservate verdi dall'autunno, le noci e soprattutto i fichi secchi. Questi ultimi venivano confezionati in vari modi: a "crucètti", ossia disposti a croce, imbottiti di noci o mandorle ed aromatizzati con "l'ànnassi", e cioè semi di anice reperito sulle colline locali o acquistato ad once dai montanari; a "schjocchi", infilzati in lunghi spiedi di canna e posti a dorare nel forno, o, più semplicemente, "ntartaràti", imbiancati dal loro stesso zucchero dopo una breve sbollentatura.
Ciò che rimaneva di questi cibi, in genere riservati al periodo natalizio, costituiva spesso la cena o la colazione di un'intera famiglia per gran parte del periodo invernale.
La vera specialià natalizia badolatese è sempre stato "u cumpèttu", dolce tipico che veniva preparato in ogni casa, con il sesamo ("giuggiulèna") e il vino cotto, prodotti localmente. Nel giorno della vigilia di Natale si friggevano "i zzìppuli", zeppole impastate con farina e lievito, "i pitticèhri cu i sardi", specie di frittelle ripiene di acciughe, e "l'alàci" fatti con vino e farina. Né poteva mancare il baccalà fritto in sostituzione del pesce fresco che non era reperibile; mentre la carne rappresentava un lusso e chi poteva permettersi tale prelibatezza la riservava per il pranzo del giorno di Natale. Il vino abbondava in quasi tutte le famiglie, mentre lo spumante non si conosceva neanche. Insomma, se prima di novembre sembrava che ci fosse una qualche abbondanza derivante dal raccolto dei caldi mesi estivi e del mite periodo autunnale, dopo Natale, proprio quando il freddo diveniva più pungente, l'esaurimento delle scorte obbligava a stringere la cinghia e la gente era costretta a razionare ciò che rimaneva nei "casciùni" e nei "catòja". I fagioli cotti al focolare e le erbe selvatiche che a stento si riusciva a reperire nei campi per via del gelo, rappresentavano il cibo che più spesso veniva consumato per pranzo o cena, a volte alternato da una manciata di castagne o di fichi secchi. Non di rado la minestra, rimasta in pentola la sera, veniva consumata l'indomani come colazione, prima della partenza per la campagna, e cioè all'alba. Altro che cornetto e cappuccino!
Era proprio vero quel che dicevano i nostri antenati: "Prima Natàla né friddu né fammi, doppu Natàla friddu e fammi."



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